Non solo Versace: la moda italiana è terreno di razzia per i gruppi stranieri

La Medusa è passata nelle mani di Michael Kors, ma è solo l'ultimo esempio: quasi tutto il made in Italy è nelle mani di gruppi stranieri. Così la moda italiana rischia di essere schiacciata tra New York e Parigi, complice anche la debolezza strutturale del capitalismo familiare italiano

MIGUEL MEDINA / AFP

Nel backstage sono tutti esterrefatti: “E’ una coltellata”. “Che tristezza”. “Peccato…”. Ma in pubblico nessuno si sbilancia, nessuno dice davvero quello che pensa. E cioè: l’Italia è un buon posto per fare shopping, è un grande outlet e sarà così finché ci sarà qualcosa da comprare. La vendita di Versace a Michael Kors, geniale profeta del lusso di massa, a 1,83 milioni di euro è un altro passo verso l’inarrestabile de-italianizzazione del made in Italy. E la notizia arriva alla fine della Milan Fashion Week (18-24 settembre) dedicata alle collezioni primavera – estate 2019. Un calendario compresso, dominato dal grandioso show di emporio Armani all’hangar di Linate e dalla polemica con il “New York Times” che accusa brand prestigiosi (Fendi, Max Mara) di produrre in Puglia pagando le sarte un euro l’ora.

Non è un mistero che New York abbia grandi ambizioni, e il fashion system stia diventando un gigantesco Monopoli: Versace potrebbe essere il Parco della Vittoria, uno dei terreni di maggior valore nel gioco

La Camera della Moda reagisce con una dose massiccia di indignazione, ma c’è chi si domanda: perché questo attacco? Perché adesso, mentre un americano compra Versace? Non è un mistero che New York abbia grandi ambizioni, e il fashion system stia diventando un gigantesco Monopoli: Versace potrebbe essere il Parco della Vittoria, uno dei terreni di maggior valore nel gioco. I comunicati ufficiali per ora sono equilibrati e frizzanti. Donatella Versace, che ha raccolto l’eredità nel fratello nel 1997, resterà direttore creativo del gruppo, vivranno tutti ricchi, felici e contenti. ” Lo stile iconico di Donatella è al centro dell’estetica del design di Versace. Lei continuerà a guidare la visione creativa dell’azienda. Sono entusiasta di avere l’opportunità di lavorare con Donatella sul prossimo capitolo di crescita di Versace”, ha detto John D. Idol, Chairman and Chief Executive Officer di Michael Kors Holding. Stesso slancio anche da parte della famiglia: “Santo, Allegra e io siamo consapevoli che questo prossimo passo consentirà a Versace di raggiungere il suo pieno potenziale. Siamo tutti molto eccitati di unirci al gruppo guidato da John Idol, che ho sempre ammirato come un leader visionario ma anche forte e appassionato. Esserne parte è essenziale per il successo nel lungo termine “.

A Gianni Versace (prima sfilata nel 1978) è legata la carriera di Naomi Campbell, Claudia Schiffer, Cindy Crawford, Christy Turlington Linda Evangelista, Kate Moss

L’azienda apparteneva per l’80% a Santo, Donatella e Allegra e per il 20% al fondo americano Blackstone entrato nel 2014 che, assieme ai Versace, ha gestito la trattiva con Michael Kors. Nonostante il rilancio, i numeri non permettevano la quotazione, ovvero la raccolta di soldi freschi. Versace ha chiuso lo scorso anno con 15 milioni di profitti. I ricavi sono fermi a quota 700 milioni da tempo, con utili e margini ridotti. In casi come questo, crescere vuol dire vendere. E se la leggenda di Gianni Versace resiste – il suo archivio è straordinario, la sua fine drammatica e misteriosa, il 15 luglio 1997 a Miami, è diventata una fiction premiata agli Emmy – i bilanci non sono all’altezza. In qualche modo la serie “American Crime Story – L’assassinio di Gianni Versace”, contestata dalla famiglia (Penelope Cruz era la biondissima Donatella) ha ricordato che cosa significava il brand negli anni ’90: modelle come dee – è stato a lui a inventare le top – edonismo puro e lusso sfrenato sotto il segno della Medusa. A Gianni Versace (prima sfilata nel 1978) è legata la carriera di Naomi Campbell, Claudia Schiffer, Cindy Crawford, Christy Turlington Linda Evangelista, Kate Moss. E tanto per dare un’idea di che cosa proietta quel nome nell’immaginario collettivo, ascoltate la canzone di Bruno Mars “Versace on the floor”. Evoca un abito di seta che scivola sul pavimento ( lui poi dice “Versaci”, all’americana, ma pazienza): seduzione allo stato puro.

Invece, se dovessimo definire il lusso di Michael Kors dovremmo chiamarlo “ragionevole”, vocabolo che la moda frequenta poco e decisamente non ama. Nel film “Il Diavolo veste Prada”, la terribile Miranda, alter ego di Anna Wintour, a un certo punto dice alla sua assistente: ” Rispondi sì per la festa di Michael Kors, l’autista mi accompagnerà alle nove e mezza e mi riprenderà alle nove e quarantacinque precise”. Nel 2006 Kors valeva un quarto d’ora scarso del suo tempo. Poi sono successe tante cose. Si è quotato in Borsa. E’ arrivato a 800 negozi. E’ diventato un volto televisivo grazie a “Projet Runaway”, il reality con Heidi Klum. Ha vestito Michelle Obama da first lady. Ma anche un po’ di star system: Jennifer Lopez, Gwyneth Paltrow, Catherine Zeta-Jones…Niente male per il bambino prodigio che a cinque anni contestava l’abito da sposa scelto dalla mamma ex modella per le seconde nozze con Bill Kors (troppi fiocchi), a 19 disegnava vestiti nel garage di casa, mollava la scuola per fare il vetrinista a Manhattan e a 22 presentava la prima collezione con il suo nome. Inventato anche quello, perché all’anagrafe si chiama Karl Anderson jr.

Gli analisti parlano di una debolezza strutturale del capitalismo familiare italiano e nel caso del lusso, della sua incapacità di fare “sistema”

Certo, per Kors, che dopo alti e bassi, le discese ardite e le risalite, si è comprato Jimmy Choo nel 2017 ( le scarpe di “Sex and The City”), Versace è un boccone davvero grosso, tanto che la società cambierà nome, si chiamerà Capri Holdings Limited in omaggio all’Italia e alla mitica isola “che è stata a lungo riconosciuta come destinazione iconica, glamour e di lusso” . I Versace ne avranno una quota del valore di 150 milioni di euro, saranno azionisti di minoranza. Dietro tutto questo c’è una strategia di sistema. In un mondo dove il lusso è monopolio dei grandi gruppi, è difficile stare sul mercato da soli. I francesi l’hanno capito benissimo e hanno agito di conseguenza.

Lvmh (Arnault) ha comprato Pucci, Fendi, Bulgari e Acqua di Parma, abiti, pellicce, profumi e gioielli e persino la storica pasticceria Cova di Milano. Nel 2013 si è portato a casa Loro Piana, marchio piemontese delle lane pregiate, senza scossoni, chiusure, perdite dei posti di lavoro. La famiglia Loro Piana (che possiede ancora il 15%) è contenta della collaborazione. La Kering di Francois-Henri Pinault ha francesizzato Gucci, Bottega Veneta, Brioni e Pomellato ( il fondatore adesso si dedica al cinema) . A proposito di Gucci, la scelta di sfilare a Parigi per la primavera- estate 2019 togliendo alla Fashion Week milanese uno degli show più interessanti, è un segnale molto chiaro di come si stanno spostando gli equilibri. I Pinault al completo erano lì ad applaudire il direttore creativo Alessandro Michele che sta facendo volare i fatturati. E’ la grandeur, bellezza!

A proposito di Gucci, la scelta di sfilare a Parigi per la primavera- estate 2019 togliendo alla Fashion Week milanese uno degli show più interessanti, è un segnale molto chiaro di come si stanno spostando gli equilibri

Valentino è finito nelle mani del fondo del Qatar Mayhoola, cioè di Sua Altezza Mozah bint Nasser al Missned, una delle donne più eleganti del mondo, per 700 milioni di euro e qualche spicciolo. La lingerie di lusso La Perla, che aveva tentato di espandersi in passerella con collezioni complete, è passata agli olandesi di Sapinda. Si fanno avanti anche i cinesi. Krizia è stato comprato quattro anni fa Shenzen Marisfrolg Fashion, l’alta gioielleria di Buccellati dal gruppo Gansu Gangtai Holding che si è assicurato l’85% delle azioni, mentre il 15% resta al fondo di investimento Clessidra e ai Buccellati. Anche Federico Marchetti ha ceduto la sua piattaforma on line Yoox-net-à-porter agli svizzeri di Richemont. Voci insistenti, per ora smentite, parlano di un’offerta per Ferragamo. Ma sì, potrebbe entrare nella prossima lista dello shopping ormai compulsivo di Pinault /Arnault.

Gli analisti parlano di una debolezza strutturale del capitalismo familiare italiano e nel caso del lusso, della sua incapacità di fare “sistema”. Prada ha comprato e rivenduto Jil Sander, Rcs ha comprato e rivenduto Valentino, la It Holding (Ferrè, Malo, Romeo Gigli) è finita in tribunale. Non tutte le cessioni hanno avuto grandi risultati. Acquisito da Paris Group di Dubai nel 2011, Gianfranco Ferré è sparito, il magazzino liquidato, i meravigliosi abiti-scultura messi in saldo, lo stabilimento di Bologna chiuso. Le sue camicie sono in mostra al Museo del Tessuto di Prato.

Lo stile di vita italiano, buon il cibo e l’alta qualità dell’artigianato sono un mito ovunque. Così tanto un mito che francesi, americani, arabi, cinesi ne vogliono un pezzetto, con il rischio che a noi non resti più niente

Chi resiste? La famiglia Prada-Bertelli. Proprio nei giorni scorsi è arrivato il messaggio: ”Non siamo vendita e non lo saremo mai”. Giorgio Armani, che ha creato una Fondazione e ha sistemato le cose per mettere in sicurezza l’azienda (due miliardi e mezzo di ricavi) anche quando lui, il più tardi possibile, non ci sarà. Dolce & Gabbana che vivono nel loro pianeta autosufficiente. Quei mattacchioni degli Etro che hanno celebrato le loro follie con una fantastica, imperdibile mostra al MUDEC. I Missoni, che lo scorso giugno hanno ceduto il 41,2 % al fondo FSI Mid-Market Growth Equity (l’aumento di capitale vale 70 milioni di euro) e non mollano l’impero millerighe. Tod’s (Diego Della Valle), ma anche Alberta Ferretti, che il suo sistemino l’ha fatto comprando Moschino e Pollini e quotando la sua Aeffe.

Però l’impressione è che la moda italiana sia schiacciata tra New York e Parigi, assediata da capitali aggressivi e in generale poco sostenuta. I giovani, anche molto bravi, faticano. Tutto questo accade mentre lo stile di vita italiano, buon il cibo e l’alta qualità dell’artigianato sono un mito ovunque. Così tanto un mito che francesi, americani, arabi, cinesi ne vogliono un pezzetto, con il rischio che a noi non resti più niente.

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