Oscar Farinetti orina sull’aiuola della poesia italiana. Scoprite lo splendore inattuale di Isabella Leardin

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato alla settimana. Invece della fake poetry dell'imprenditore di Eataly scegliete Vittorio Sereni. La Leardini, talentuosa, ci insegna a solleticare il mostro dentro di noi

Il bastone. Questa volta, non c’è nulla da dire. Questa volta, dico, vi metto il bastone tra le mani, il gioco del boia lo fate voi. A me basta fare un piccolo esercizio comparativo – ginnastica necessaria se ci si occupa di letteratura. Questo è Oscar Farinetti, incipit dalla poesia che offre il titolo al volume, Quasi:

Adoro il quasi

l’incompiuto, il copiato

il meno peggio, il suppergiù

M’ispira il compromesso

che trovo in sé perfetto

Questo è Vittorio Sereni, prima porzione di Intervista a un suicida.:

L’anima, quello che diciamo l’anima e non è

che una fitta di rimorso,

lenta deplorazione sull’ombra dell’addio

mi rimbrottò dall’argine.

Da una parte c’è un poeta – Sereni – dall’altra c’è quello – Farinetti – di Eataly, il grande imprenditore, che dopo aver messo i soldi nella Scuola Holden s’è detto, già che ci sono faccio il poeta anch’io, costa meno. Solo che Farinetti non scrive versi, fa la pipì sull’aiuola della poesia italiana. Ma come si permette, Farinetti, di pisciare in testa al fior fiore della poesia italiana? La poesia – se sei poeta – si fa in due modi: o usi il tosaerba e la katana e disintegri l’aiuola, o ti curi dei fiori, con dedizione e obbedienza. Oppure, occupati degli affari tuoi – e Farinetti avrà scarso tatto lirico ma ha un fiuto per gli affari indubbiamente superiore.

Secondo esempio. Questo è ancora Farinetti. Vi risparmio la poesia Tempo (“C’è il tempo ufficiale/ è semplice, uguale…/ C’è il tempo dell’amore/ c’è quello del dolore// C’è il tempo dell’affanno nel finire…”), vile scopiazzatura dal libro biblico del Qoèlet, di petrosa vertigine (“C’è un tempo per nascere – un tempo per morire/ un tempo per piantare – un tempo per sradicare ciò che hai piantato…”), per cui verrebbe da dirgli, poeticamente, c’è un tempo per la vergogna e un tempo per il pudore. Ad ogni modo, questa s’intitola Accetto:

Siamo contadini

con un profilo social

che ruba tempo alla terra

Siamo padri e madri

e figli

dei padri e dei territori

Questo è Antonio Porta, da un poemetto che s’intitola Airone:

quando il mio essere si fa opaco lo distendo

ai tuoi piedi, airone

io disteso come prateria

invasa dalle acque dai semi

opposto ai buchi luminosi dello stellato

come in attesa di essere ancora luce

La poesia è forma che si struttura in linguaggio: la poesia non è il primo pensiero che ti viene in mente e lo getti a macerare su un foglio. La poesia entra in chi lo legge, furtiva e furiosa, come la volpe, fa razzia nelle interiora, poi esce dalla gola, dagli occhi. Lo scaltro dirà: facile gioco paragonare Farinetti – l’ultima sfilza di versi pare l’abstract di un discorso vintage del desaparecido Matteo Renzi – a Vittorio Sereni e ad Antonio Porta, due sonori maestri – ma chi li legge più, ormai, tra i normodotati delle classifiche librarie? Io dico, invece, che se c’è già chi ha scritto una poesia più bella della mia, a che pro pubblicarla? Ad ogni modo, io continuo a combattere la fake poetry, la poesia-non-poesia, la lirica bufala (che non è la mozzarella dop). Fatelo anche voi: sostituiamo al libro indecente di Farinetti – stampato, forse, come dono settembrino per gli amici –, Stella variabile di Vittorio Sereni (è stato ripubblicato l’anno scorso da il Saggiatore), ad esempio, ne va della nostra salute estetica, della nostra salvezza umana, perché non possiamo transigere, non possiamo più squalificare l’osceno con una alzatina di spalle, basta una parola per travolgerci, basta una scusa a corromperci.

Di Farinetti, d’altronde, non m’importa il curriculum, la poesia è sfacciata, non guarda in faccia a nessuno: i due poeti più grandi del Novecento erano uno il manager di una imponente società di assicurazioni statunitense (Wallace Stevens), l’altro uno degli uomini politici più importanti della Francia degli anni Trenta (Saint-John Perse). Il problema, semmai, è che uno (Stevens) scrive cose come questa, “Perché darebbe ai morti il suo tesoro?/ Divinità che vale, se venire/ Non può che in sogni e in ombre silenziose?” (traduzione classica di Renato Poggioli), l’altro (Farinetti) si limita a questa, non c’è neanche una infarinatura lirica, “Gran bella giornata/ devo lavorare/ Ma alla fine aiuta”, letta la quale, per bilanciare l’indigestione, vien voglia di boicottare tutti gli Eataly del quartiere.

Piuttosto, mi sorprende un’altra cosa. Perché un uomo di successo, di fama, certamente celebre nel suo campo, pensa di poter impunemente essere poeta? Che cosa lo spinge non tanto a poetare – attività connaturata all’essere eretto – ma a pubblicare? La vanità? La superbia? La bestemmia (io ho i soldi e mi pago il libro con l’editore giusto)? Se fossi Farinetti, per dire, terrei nel cassetto le mie amene scempiaggini poetiche – lo ha fatto Saint-John Perse, per esempio, poeta tra i sommi della storia della letteratura, ritenendo inconciliabile l’attività politica con quella poetica, cominciamo a rimpinzare il cervello oltre che la panza… – e finanzierei una casa editrice, almeno una collana editoriale di poesia, che nessuno pubblica più come si deve, sono tutti poveri di spirito e di soldi. Ma l’ego, con cinica evidenza, scalpita, e mentre un Farinetti pubblica i grandi poeti latitano, sono latitanti. I poeti modesti, invece, scodinzolano davanti al potente: il 22 settembre Farinetti presenta i suoi versi imbarazzanti a Pordenonelegge, festival di pregio – ora decisamente meno – che ha dato spazio ai poeti e li pubblica pure, alcuni perfino buoni (Francesca Serragnoli, Daniele Mencarelli, Maddalena Lotter, Maria Grazia Calandrone, ad esempio), come a dire, si predica bene e si razzola come si può. Il fatto, purtroppo, è che anche in poesia è sempre una questione di dimensioni, di portafogli, di padronie e di potentati. Ma la poesia, proprio perché è aperta a tutti resta per pochi, ha una sua aristocratica voragine: nel mondo in cui si ha accesso a tutto la grande poesia resta inaccessibile, inaccettabile.

Oscar Farinetti, Quasi, La Nave di Teseo 2018, pp.270, euro 17,00

La carota. Al principio, ammetto, mi dava fastidio tutto. Tutto, intendo, mi pareva un insulto, perché la poesia, in fondo, è una bestia personale, il Minotauro che ascolta le nostre più perverse confessioni. Intanto, mi pareva un insulto la collana editoriale. ‘Vivere meglio’. Che cosa vuol dire, cosa significa ‘meglio’? Nella stessa collana, per dire, insieme a questo manuale per vivere poeticamente meglio Mondadori pubblica Il potere curativo del digiuno e Le ricette dei nostri food blogger. Che indecenza. Forse la poesia funziona da digestivo, aiuta i problemi intestinali – forse li acuisce. Poi mi stava sulle balle il sottotitolo. Titolo bellissimo (Domare il drago), sottotitolo imbarazzante, Laboratorio di poesia per dare forma alle emozioni nascoste. Roba da gastroenterite sentimentale. Poi mi ha fatto sobbalzare quel refuso, micidiale, a pagina 71, spero l’abbiano corretto in corsa razza di corrotti, che mi ha fatto abbandonare, per un paio d’ore, a sbollire la rabbia, la lettura: “Herman Brock” al posto di Hermann Broch, posto che si parli – come si arguisce dal contesto – del geniale scrittore de La morte di Virgilio. Poi non mi garbavano i ringraziamenti in calce, pelosi e piacioni: ringraziare chi ti ha stampato il libro, uno dei capetti in Mondadori, Carlo Carabba, non è mai un gesto nobile. Però, prima dei salottieri ringraziamenti, ci sono sei pagine di Bibliografia e fonti – si va da Ernst Cassirer ad André Neher, da W. H. Auden a Marianne Moore e William Carlos Williams – che testimoniano l’altezza del testo. Isabella Leardini, poetessa di talento, tra i bravi, oggi (Donzelli ha da poco pubblicato la sua ultima raccolta, Una stagione d’aria), da tempo insegna poesia ai liceali. La cosa fa rabbrividire, lo so, ma bisogna vincere i pregiudizi inculcati dalla Scuola Holden. Isabella, infatti, non insegna a diventare poeta – e chi potrebbe farlo? – insegna a solleticare, con le parole, il mostro che è dentro di noi. Lo fa, Isabella, dotata di speciale carisma didattico, ora, in questo libro anomalo e cruento, usando le figure del mito – Orfeo, Psiche, Arianna – e gli elementi della favola, con uno spiccato dono per il gioco ma anche con una sintonia verso il sublime. Nel percorso costruito da Isabella – che non è un ‘metodo’ o un abbecedario lirico, ma un trattato dell’anima spigata dalla poesia – ha evidenza la giungla (“La prima cosa da sapere è che la poesia è una giungla in cui le regole più importanti sono quelle che ognuno deve imparare a darsi”), il mostruoso (“Qualche volta, come Perseo con Medusa, ci vuole uno specchio per poter guardare il mostro e affrontarlo”), la lotta (“Abbiamo lottato dal primo istante, siamo stati e siamo ancora nell’aria della lotta, con noi stessi, con il ‘tu’, con la materia del testo”), così che il libro pare più che altro una sorta di Hagakure lirico, un manuale di guerra poetica per combattere se stessi, la disciplina adatta ad affilare la katana del verso. In civiltà più civili di questa la poesia faceva parte dell’educazione comune, naturale dell’uomo ‘di mondo’. Non si trattava di diventare grandi poeti e neppure poeti: la poesia, semplicemente, apparteneva alle nozioni di base per ragionare con se stessi, con il prossimo, con la prossimità delle cose. Anche per questo, il libro della Leardini tocca un tema d’inattuale splendore. Bisogna studiare la poesia, bisogna creare università in cui si fa ricerca poetica come si costruiscono università per fare ricerca scientifica o enogastronomica. Siamo il paese che con Dante e Petrarca ha inventato la lirica occidentale. Ecco, svegliamoci!

Isabella Leardini, Domare il drago, Mondadori 2018, pp.226, euro 19,00