Povera Genova, in balia di un Governo (e di un’Italia) che non sa più reagire alle emergenze

Solo quaranta giorni fa gli applausi a Salvini e Di Maio. Ora mancano perfino le cifre al decreto per la ricostruzione del ponte. Ed è lo specchio di un’Italia che, a parte i proclami roboanti, non riesce più a reagire in modo pratico alle emergenze

Povera Genova che solo quaranta giorni fa applaudiva il governo, stringeva la mano del ministro delle Infrastrutture, si riconosceva nella linea del rigore: mai più concessioni, mai più una lira a quelli che dovevano gestire e non hanno gestito, che dovevano prevenire e non hanno prevenuto. Povera Genova che solo venti giorni fa giurava su una ricostruzione lampo: un mese, diceva Autostrade, per tirare giù tutto, poi basteranno otto mesi per un nuovo ponte d’acciaio. Povera Genova che aveva visto in tv il progetto di Renzo Piano e lo immaginava come cosa già fatta, tantoché gli sfollati della Zona Rossa protestavano per il divieto di recuperare mobili e oggetti pensando alla demolizione come a una cosa imminente, domani, al massimo dopodomani.

Povera Genova. Oggi scopre che tutto quel che pensava era sbagliato. Non solo non c’è ancora un progetto, una decisione sul chi e sul come, il nome del Commissario che dovrà occuparsene, ma il decreto varato dal Consiglio dei Ministri era così lacunoso che la Ragioneria dello Stato non ha potuto passarlo al Quirinale per la controfirma e sta lavorando per aggiungere cifre, numeri, dove c’erano solo puntini di sospensione. I tempi celeri di cui tanto si è parlato cominciano a dilatarsi verso l’infinito. Il modellino di Piano è già rottamato, Danilo Toninelli parla in favore di altre soluzioni: un ponte che contenga anche negozi, spazi verdi, ristoranti, e ad ogni parola che descrive questo futuribile e rivoluzionario progetto si vede il calendario che scorre in avanti, mese dopo mese, anno dopo anno.

I tempi celeri di cui tanto si è parlato cominciano a dilatarsi verso l’infinito. Il modellino di Piano è già rottamato, Danilo Toninelli parla in favore di altre soluzioni, e ad ogni parola che descrive questo futuribile e rivoluzionario progetto si vede il calendario che scorre in avanti, mese dopo mese, anno dopo anno

È probabile che in tanti nel governo, a cominciare dai vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini, fossero ben consapevoli della piega surreale che stavano prendendo le cose. Nessuno dei due aveva voluto essere alla conferenza stampa di presentazione del decreto dei misteri, il 13 settembre scorso. E nessuno dei due ha fiatato quando ieri si è diffusa la notizia che la Ragioneria dello Stato era stata costretta a tener fermo il provvedimento per individuare le coperture finanziarie, poco chiare in alcuni passaggi e non indicate in altri. L’unica nota è arrivata da Palazzo Chigi, una difesa d’ufficio del lavoro di Toninelli e una generica rassicurazione sull’imminente invio del testo al Quirinale.

Che il decreto, prima o poi, divenga operativo è fuor di dubbio. Ed è possibile persino che i tecnici del Mef abbiano usato una vigilanza esageratamente occhiuta per reazione agli anatemi governativi nei loro confronti. Ma è ormai altrettanto chiaro che le idee sul futuro di Genova sono confuse, contraddittorie, e che lo scontro tra visioni differenti – unito alla scarsa competenza di alcuni dei soggetti in campo, alla primissima esperienza nella gestione di processi complessi – sta provocando uno di quegli stati di paralisi in cui l’Italia è specializzata. Tuttavia il pubblico, che ha giustamente sanzionato il privato per i suoi errori di sottovalutazione, avocando a sé il dovere e il diritto di risolvere l’emergenza, non può permettersi di comportarsi con la stessa leggerezza. Su questa vicenda di Genova non si gioca soltanto la credibilità dell’esecutivo, ma quella del sistema Italia. Era già terribile essere il Paese dove crollano ponti autostradali per scarsa manutenzione, ma sarebbe fatale dimostrarsi il Paese che non sa ricostruirli.

Povera Genova, povera Italia, se tutti – il governo, i tecnici, Autostrade, i poteri piccoli e grandi che ruotano intorno alla vicenda – non capiranno il carattere simbolico di questa ricostruzione, dove in gioco non c’è solo un’infrastruttura importantissima per la viabilità di una città e di un porto ma anche la nostra reputazione nazionale. Siamo ancora in grado di costruire grandi opere in tempi decenti? Siamo ancora capaci di governare procedure articolate senza perderci? O abbiamo perso quel tipo di abilità e di competenza, non sappiamo più farlo?

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