Forse per la prima volta in assoluto abbiamo sentito uomini commentare una partita di pallavolo femminile, sapere il nome della capitana e dell’opposto, parlare di un pipe o di una fast con la competenza che di solito riservano al fuorigioco o alla Var. La vittoria più bella della Nazionale azzurra, che contro la Cina si è conquistata la finale ai mondiali dopo una striscia di successi con pochi precedenti (11 partite vinte su 12), è aver rotto le barriere dello sport di nicchia per diventare qualcosa che appassiona a largo raggio. C’entra senz’altro l’attenzione conquistata un mese fa dai colleghi maschi, che però si erano fermati alle semifinali, e forse pure il momento politico – abbiamo tutti bisogno di una boccata d’aria fresca – ma tuttavia sentire che di volley femminile si parla nei bar fa un certo effetto, non ci siamo abituati.
Fino a non molto tempo fa c’era l’idea che lo sport giocato dalle donne suscitasse emozioni più tiepide di quello maschile e non potesse comunque aspirare alla stessa popolarità. C’era oggettivamente qualcosa di vero, e su questo qualcosa resta ancora incardinata la nostra organizzazione sportiva dove per le atlete ci sono meno sponsor, meno soldi, meno tv, zero possibilità di professionismo e quasi nessuna opportunità di trasferirsi dal campo alle responsabilità societarie e federali. Il Mondiale in Giappone potrebbe davvero rovesciare lo stereotipo e rendere chiaro il valore aggiunto dello sport femminile. Magari le ragazze sono meno potenti, meno veloci, meno muscolari, ma il loro spendersi sul campo ha un plus emotivo che è risultato chiaro a chiunque abbia visto le partite. La caparbietà, la spavalderia, l’efficacia delle soluzioni. La furbizia che esce fuori nei momenti difficili. La fragilità dopo i punti persi – la Egonu che morde il bordo della maglietta, la Chirichella pietrificata in un’espressione da principessa di ghiaccio – e la capacità di trasformare lo smarrimento in contrattacco dopo un battito di ciglia.
Magari le ragazze sono meno potenti, meno veloci, meno muscolari, ma il loro spendersi sul campo ha un plus emotivo che è risultato chiaro a chiunque abbia visto le partite
Per molto tempo la dirigenza sportiva nazionale e internazionale ha pensato che la sola strada per valorizzare i campi femminili e renderli “appetibili” fosse puntare sulla sessualizzazione delle atlete. Cominciò Sepp Blatter, il vecchio presidente della Fifa, chiedendo di imporre alle calciatrici calzoncini sexy, e quel tipo di visione ha resistito nel tempo tanto chè solo poche settimane fa a Vicenza è successo un putiferio per un gruppo di pallavoliste Under-16 mandate su campo da calcio mezze nude, a fare le raccattapalle. Ecco, il Mondiale giapponese segna una rivincita anche su questa tendenza, dimostrandoci che una partita femminile può essere sexy, sì, ma per le schiacciate, i punti, le beffe agli avversari, i muri. Speriamo che si faccia una riflessione anche su questo, anziché prenderlo come un sottotema di scarso interesse.
Forse dovremmo sostituire ai molti modelli di assertività che nel tempo sono stati proposti alle donne – la grande scienziata, la politica influente, l’attrice carismatica – l’idea di un gruppo che si spalleggia
Poi, oltre lo sport, c’è quello che un commentatore su Fb ha definito «l’ultimo piccolo grande baluardo sul quale indirizzare lo sguardo dei figli», che è poi l’idea di poter divertirsi moltissimo, e avere successo, e conquistare traguardi, facendo gioco di squadra in un epoca che suggerisce al contrario di coltivare l’individualismo e il “fatti gli affari tuoi”. Forse dovremmo sostituire ai molti modelli di assertività che nel tempo sono stati proposti alle donne – la grande scienziata, la politica influente, l’attrice carismatica – l’idea di un gruppo che si spalleggia. Ricezione, alzata, schiacciata, punto. Ciascuna con un ruolo suo, tutte insieme per fare una forza che spaventa. Ed è buffo che questo tipo di lezione non arrivi dalle adulte o dalle anziane che solitamente vediamo in cattedra ma da un collettivo di ragazzine giovanissime, intorno ai vent’anni, che si è giocato la sfida della vita come vorrebbe fare ognuna di noi: senza paura, senza mai darsi per vinte.
Ps. Questo articolo ha evitato l’esaltazione della cosiddetta «squadra dell’integrazione» perché lo ritiene un argomento di retroguardia: se c’è ancora qualcuno che si stupisce dell’esistenza di italiane con la pelle scura e di quanto siano affiatate con le italiane bianche, vive davvero nel secolo scorso.