Immaginiamo l’incrocio di una strada del centro all’ora di punta. Ci sono veicoli fermi allo stop che non riescono a farsi spazio per immettersi in carreggiata; e altri che transitano indisturbati e aumentano sempre di più. I primi sono i più giovani, i secondi gli ultracinquantenni. È quello che la Fondazione Di Vittorio chiama “Ingorgo generazionale”, mostrando nel suo ultimo report (curato da Lorenzo Birindelli) come ci sia una sorta di tappo che oggi non permette ai 20-30enni italiani di superare lo stop ed entrare nel mercato lavoro, mentre quelli che transitano e che un lavoro ce l’hanno già sono sempre più vecchi. In soli dieci anni, i giovani lavoratori italiani sono calati a picco. E l’età è diventata un problema: più giovane sei, meno lavori.
Ma l’invecchiamento demografico e le nascite al lumicino c’entrano poco. Nella fascia tra i 15 e i 34 anni, negli ultimi dieci anni si contano quasi 2 milioni in meno di occupati, che sono 500mila in più rispetto alla riduzione della popolazione nella stessa fascia d’età. Dal 2008 a oggi, il tasso di occupazione giovanile è calato del 9,3 per cento. Nonostante il calo demografico, però, il numero assoluto dei disoccupati under 35 è cresciuto di quasi 330mila unità, e quello degli inattivi di quasi 160mila. Il tutto mentre tra i 50 e i 64 anni, gli occupati sono 2,63 milioni in più, quasi 700mila in più della crescita demografica. I disoccupati più anziani nello stesso periodo sono cresciuti di poco meno di 400mila, mentre gli inattivi sono diminuiti di oltre un milione. Schiacciata, tra questi due poli, la classe intermedia tra i 35 e i 49 anni, dove si registra un calo degli occupati di 200mila unità più alto di quello demografico.
In Italia, ribadiscono dalla Fondazione Di Vittorio, l’età è diventata un elemento discriminante sul lavoro. E in dieci anni si è ribaltato lo scenario: nel 2008 il tasso di occupazione dei giovani era più elevato di quello degli anziani (50,7% contro il 47,1%); nel 2018 i vecchi sono al 60,3% e i giovani al 41,4%. Non solo si è invertito l’orizzonte, ma è anche aumentata la distanza tra giovani e vecchi. Simmetricamente, il tasso di inattività dei giovani, che era quasi di 9 punti inferiore di quello delle classi di età mature, nel secondo trimestre 2018 è di circa 13 punti superiore (48,5% contro 35,4%).
Il tasso di disoccupazione, così come il numero di disoccupati, è cresciuto in tutte le classi di età: l’aumento di quello giovanile (+7,9) però è circa il doppio di quello della fascia intermedia (+3,9 punti) e più del doppio di quello della fascia matura (+3,6%).
Il modello di sviluppo attuale non propone lavoro in qualità e quantità adeguate. Sbloccare quindi la possibilità di pensionamento è giusto e necessario, ma di per sé non è sufficiente a garantire un aumento di pari entità del lavoro tra i più giovani, né un miglioramento della sua qualità
Nonostante i giovani oggi siano numericamente di meno che in passato e nonostante si sia registrato anche un aumento del tasso di inattività (+6 punti percentuali), ci sono quasi 330mila disoccupati under 35 in più rispetto a dieci anni fa. Certo, l’aumento dell’inattività è in parte giustificato dalla più elevata quota di giovani che studiano, cresciuta di 4,8 punti percentuali. Ma si riscontra anche una crescita (+1,2 punti) dei Neet, giovani che non studiano, non hanno un lavoro e, in questo caso, nemmeno lo cercano. Il risultato è una sempre minore partecipazione dei 20-30enni nel mercato del lavoro. E la situazione peggiora nel Mezzogiorno, dove l’ingorgo è ancora più affollato, con il gap territoriale nei tassi di disoccupazione giovanile tra Sud, Nord e Centro che si è ulteriormente allargato nel decennio di cinque punti percentuali.
«Con un’offerta di lavoro che non riesce a generare la stessa quantità di lavoro, in termini di ore lavorate, raggiunta prima della crisi, le generazioni che si sono affacciate sul mercato del lavoro non hanno trovato sbocchi occupazionali sufficienti, nonostante fossero meno numerose di quelle che andavano a rimpiazzare», si legge nel report. «La crescita dell’occupazione matura ha, sulla base di questa lettura dei dati, fortemente condizionato la mancata o ritardata occupazione dei più giovani. Appare ragionevole mettere tale situazione in connessione con gli interventi legislativi più recenti che hanno spostato ulteriormente in avanti l’età del pensionamento».
Ma da sola la legge Fornerno non basta a giustificare la disoccupazione giovanile. Non è solo una questione di spazio da occupare. Il modello di sviluppo attuale, come ha spiegato il presidente della Fondazione Fulvio Fammoni, «non propone lavoro in qualità e quantità adeguate. Sbloccare quindi la possibilità di pensionamento è giusto e necessario, ma di per sé non è sufficiente a garantire un aumento di pari entità del lavoro tra i più giovani, né un miglioramento della sua qualità». La domanda di lavoro che c’è, seppur scarsa, non scommette sui giovani. Si parla molto di innovazione, tecnologia, industria 4.0, ma in Italia non sono ancora la chiave per trovare un lavoro. Chi ha queste competenze spesso è costretto a espatriare per avere un’occupazione. E gli incentivi alle assunzioni da soli non bastano. Sono i numeri a dirlo.