Una lunga navigazione nel mondo della politica, una solida esperienza da economista e studioso e, infine, uno spirito che non le manda a dire. Il professore Francesco Forte, 89 anni, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, ministro delle Finanze nel governo Fanfani e delle Politiche Comunitarie dell’Unione Europea nel successivo governo Craxi ha tutti i titoli e gli strumenti per osservare cosa succede nel mondo. E giudicarlo senza timore. Il reddito di cittadinanza? «Una tripla iniquità». Lo scontro in Europa? «Affonda nella serparazione tra cattolici e protestanti». Mentre la manovra «è un’operazione raffazzonata e pericolosa». Incontrato a margine della cerimonia per il conferimento del Premio Ghislieri, collegio storico di Pavia che Forte aveva frequentato in gioventù, racconta la sua visione delle cose.
Perché considera iniquo il reddito di cittadinanza?
Iniquo in tanti modi. Prima di tutto, perché si basa su una media nazionale, che è più una media di Trilussa che un dato affidabile. È noto che chi vive al Nord spende di più di chi vive al Sud. La cifra che a Milano non basta per sopravvivere, in certe città del Sud è una fortuna. Ma non è una distinzione solo regionale: la si ritrova anche a livello città-provincia. Abitare nei paesi costa meno che nei centri urbani, le spese (e lo stile di vita) cambiano. Per cui questo reddito di cittadinanza, per come è costruito, rischia di creare, anche solo per questo, ulteriori differenze, divisioni, distinzioni. Ma non è l’unica debolezza.
Quali sono le altre?
Il fatto, più grave, è che il reddito di cittadinanza non servirà a combattere la povertà. Buona parte di questi soldi verrà data a persone che lavorano in nero – senza aiutare in nessun modo i poveri veri, quelli che davvero dovrebbero essere interessati da questa misura. Ma nemmeno la pensione di cittadinanza, per come è studiata, riesce ad appianare il problema: dimentica i tanti anziani poveri che non hanno raggiunto la soglia dell’età pensionabile (magari gli manca qualche anno) e che si trovano, però, malconci. Per loro, che hanno difficoltà a trovare un lavoro e non hanno diritto alla pensione cosa c’è? Niente. E ce ne sono anche altre, di debolezze.
Le dica.
Per come è strutturato, il reddito di cittadinanza viene accompagnato da misure per l’impiego. Solo che, tra i requisiti, si sottolinea che l’impiego debba essere nel raggio di 50 chilometri (che in certe zone non esiste) e, soprattutto, omogeneo alla specializzazione professionale. E come fanno quelli che non ce l’hanno, la formazione professionale? Per cui chi è ragioniere può decidere di non fare lo sguattero, per esempio. Oltre che è difficile che abbia i requisiti fisici necessari, e che comunque il datore di lavoro preferirà affidarsi a stranieri. E poi c’è il problema dei centri dell’impiego, che nel primo anno di fatto non funzioneranno, anche se il governo ha promesso lo stanziamento di un miliardo di euro (sempre che basti). Il problema, non da poco, è che mancano i database, mancano le informazioni necessarie per unire i datori di lavoro e chi lo cerca. In Germania queste cose funzionano perché ci sono da più tempo. Qui, invece, serve una rete capillare: le promesse sono state fatte, ma il tempo non c’è. E mancano perfino le professionalità (ingegneri, informatici) per attivarla. E allora la domanda rimane: come faranno a funzionare?
Tutta questa manovra appare una cosa raffazzonata all’ultimo minuto.
Tutto porta a pensare che non funzioneranno.
Di più. Tutto rivela un difetto culturale tipico di queste persone che, non a caso, si chiamano Cinque Stelle – perché il fondatore, Gianroberto Casaleggio, credeva nell’astrologia e, pur essendo all’Olivetti, era un utopico. Gli altri, appunto per questo, lo sbeffeggiavano: del resto, all’Olivetti, uno che credeva nelle stelle era considerato un po’ strano.L’idea però, è anche quella di favorire la crescita, non solo di dare aiuto a chi non ha lavoro.
Ma anche qui si vede la portata profonda dell’Idea dei Cinque Stelle, che non è infantile, ma utopistica. Bisogna capire che per fare queste scelte, servono numeri affidabili, seri. E calcoli così complicati (cioè riuscire a capire se la domanda globale, con una certa spesa, in un certo anno generi la crescita), in due anni non si può fare. Non riesco proprio a capire come si possa fare. Credo che nessuno possa farlo!E quindi?
L’unica cosa che ho capito è che tutto questo viene valutato, a livello internazionale, anche secondo un senso pratico, più che teorico. Infrangere le regole (e superare certe asticelle) è pericoloso, soprattutto se, di fronte alle richieste di rassicurazione da parte degli altri, non si è sicuri di raggiungere un certo risultato. E se non lo raggiungi cosa fai?Loro sono fiduciosi.
Il loro giochetto è semplice, quasi ridicolo: spendo in domanda di consumi 0,4 e mi ritrovo il Pl che cresce dello 0,3. Comodo, certo. Ma vale solo per il primo anno. E gli anni dopo? Non si sa. Tutta questa manovra, che già prima era un po’ immaginata, appare una cosa raffazzonata all’ultimo minuto.Ci sono anche altre misure, però.
Sì, ma i Cinque Stelle non hanno il contenuto: sanno solo che vogliono fare una cosa da 10 miliardi. E allora siamo di nuovo nel campo del desiderio – che non definirò infantile, ma utopistico – lo stesso che dimostrano con il ponte di Genova. Eppure le altre misure sono attuabili: riformare la riforma Fornero si può, anche con zero gettito, ad esempio con un mancato aumento di adeguamento – compensato dalla libertà di non pagare contributi per nuovi lavori parziali; la flat tax può funzionare, io stesso ho fatto un lavoro analitico, che è già pronto e per cui basta solo scegliere le varianti. Ma questo reddito di cittadinanza cala dalle nuvole: una spesa che produce un Pil che si mangia da solo, di durata minima (per un anno), mentre quella per gli investimenti, o per la riduzione d’imposta, permette di rilanciare la crescita.Ma almeno ci guadagnano i voti.
Al contrario. Credo che alla fine il reddito di cittadinanza finirà per danneggiare i Cinque Stelle, soprattutto nelle aree meno sviluppate del Paese, dove ne sentono maggiore necessità. Credo anche a causa degli ulteriori conflitti e divisioni che introduce.In tutto questo, c’è uno scontro con l’Europa che sembra superare le questioni di politica di bilancio.
Lo scontro c’è, ed è nei confronti di uno Stato grosso, importante, e che è una cerniera strategia dell’area Mediterranea. Ma il tutto va inquadrato in due prospettive: una più ridotta, e riguarda le prossime elezioni europee. Nell’Europarlamento, ma anche nella Commissione, c’è una pressione sempre più forte da destra. E non so spiegarmi perché, ma si tratta di una pressione più sentita da parte dei Paesi cattolici rispetto a quelli protestanti. Secondo una rivista di studi tedesca che ho letto da poco, non si tratterebbe di un problema di xenofobia, bensì di identità, più sentito nei Paesi dalla tradizione e dal passato cattolico.In che senso “identità”?
I Paesi cattolici, per semplificare, sono quelli che fanno capo alla cultura di tradizione più antica, quelli della Chiesa (e non delle Chiese). I Paesi protestanti, al contrario, rappresentano una modernizzazione, avvenuta in un’epoca in cui – per ragioni anche economiche – si aprivano a una cultura cosmopolita. Oggi sono i primi quelli più in difficoltà di fronte alle evoluzioni globali.Ma perché si può parlare di problema identitario e non di xenofobia?
Perché sono due cose distinte. La tradizione cattolica non è razzista per definizione, in quanto raccoglie l’eredità dell’impero romano, dove le razze (se vogliamo chiamarle così) convivevano con serenità fino ad annullarsi, nel senso che si diluivano tra di loro. Esisteva, come unica forma di distinzione, quella della Chiesa: o si era dentro, come i Cristiani, o si era fuori, come gli Ebrei. Quella dei Paesi protestanti funziona all’opposto: non è un caso che le forme di segregazione basate sugli aspetti fisiognomici abbiano origine in quegli ambienti. Si pensi alla Svezia, che pur essendo protestante non si è dimostrata cosmopolita.Insomma, è un problema culturale di fondo.
Di fondo sì. In cui concorrono elementi di ogni genere, dalla tradizione religiosa (che, va ricordato, è una tradizione di visione del mondo) fino all’urbanistica. L’impianto stesso delle città, il modo in cui viene organizzato lo spazio, definisce uno schema mentale.Credo che alla fine il reddito di cittadinanza finirà per danneggiare i Cinque Stelle, soprattutto nelle aree meno sviluppate del Paese
Tornando invece a questioni di minor respiro: sembra che in Italia il partito principale di opposizione, cioè il PD, sia alle corde. Che cosa si deve fare? Chiuderlo? Rifondarlo?
Anche lui sconta i problemi dei partiti socialisti, pur senza esserlo. O meglio, lo sono diventati in ritardo, quando ormai il corpo di riferimento tradizionale, cioè la classe operaia (intesa alla Charlot) non esiste più.Ha però molti altri problemi…
Certo. Nel passato i politici erano intellettuali, certo, ma anche esponenti della società civile – e cioè avevano un’esperienza vera del popolo, lo conoscevano, lo seguivano. Si pensi a Turati, che era un medico.E oggi no?
No, questi di oggi sono solo intellettuali. Hanno studiato, conoscono i libri, ma non riconoscono più il popolo. E comunque parlavamo dei problemi del Pd. Quello del popolo è solo uno. Poi ci sono problemi di idee.Ne hanno troppe.
Sì. All’interno del partito esiste una ala liberale di sinistra, in stile Bocconi e che si ritrova in Boeri, che però non funziona perché gli elettori ne sono distantissimi. Un tipo antropologico come quello immaginato da Giavazzi o Alesina, per intendersi, non esiste nemmeno negli Usa. E non funziona, però, nemmeno quella keynesiana – intendiamoci, non neo-keynesiana – che si ritrova anche in alcune idee dei Cinque Stelle e addirittura in Salvini, per la quale si fa deficit e si fa crescita. Un partito con troppe anime, senza visione del popolo, e molte difficoltà.