Annunciare la morte delle chitarre e, più in generale, del rock è un giochetto un po’ facile e spiritoso che ogni tanto chi si occupa di musica si diverte a fare per vedere l’effetto che fa. Pure chi vi scrive, su queste pagine, lo ha fatto circa un anno fa e come risposta a quella provocazione a buon mercato, per tutti i mesi successivi non ha fatto altro che ascoltare dischi con le chitarre che gli stavano ribadendo che no, non erano morte. Forse posizionarsi così serve ogni tanto per scuotersi da ascolti routinari e dischi tutti uguali che vanno a parare sempre nello stesso punto. Forse, semplicemente, ci sono stagioni più prolifiche di altre. Di musica bella (e non solo bella, ma significativa) ne continua a uscire e anche dalle parti del tanto vituperato indie — un concetto leggermente diverso da quello che intendiamo dalle parti di casa nostre e non ha niente a che vedere con Calcutta, Stato Sociale e Thegiornalisti — ogni tanto ci si ricorda come si fa. Magari non riesce più a raccogliere lo zeitgeist, ma ne raccoglie uno e lo racconta per quello che è: una fotografia di un momento particolare che può essere suonato alzando il volume delle chitarre, senza preoccuparsi dei fronzoli stilistici, delle strategie comunicative e tutti gli artifici retorici degni del presente fatto a misura di un talent-reality show che il giorno dopo nessuno si ricorda più.
Il risultato di questo necessario bagno di “sincerità” (una parola che non siamo più abituati a usare tanto nella musica quanto nella politica e nella vita di tutti i giorni), si sviluppa in alcune band che magari non ha studiato il manuale d’istruzioni dell’indie degli anni Ottanta e Novanta (l’Età dell’Oro in cui, tra i R.E.M. e i Sonic Youth, tra i Replacements e gli Hüsker Dü, fino ad arrivare ovviamente a Nevermind dei Nirvana, quelle band potevano essere la nostra vita e diventare una ragione di militanza), ma su quei dischi ci sono cresciute, ereditandone lo spirito profondo e la voglia di mettere in musica, e soprattutto mettere in chitarre distorte, il disagio che si prova giorno dopo giorno cercando di darne un ordine o, quantomeno, urlandolo fuori. Tutto questo per dire che è uscito Last Building Burning (Carpark Records), il quinto disco della band (sesto se contiamo anche No Life for Me split fatto insieme ai Wavves) che, insieme a gente come Car Seat Headrest, Titus Andronicus, Japandroids, Beach Slang, Idles, Metz e altre sta rappresentando questa “staffetta” con la storia e, a mio avviso, ne è la punta di diamante: Cloud Nothings.
Con Last Building Burning i Cloud Nothings confermano quello che negli anni abbiamo sempre sospettato: la capacità e l’umiltà, lavoro dopo lavoro, di non sedersi sugli allori e ripetere un copione già sentito portando a casa il risultato per mettersi a servizio della loro musica e cercare in qualche modo di evolvere
Costruiti attorno alla figura del cantante, chitarrista e leader assoluto Dylan Baldi (un tizio cresciuto a Cleveland con l’unica voglia di scappare da quel posto e non tornarci mai più), i Cloud Nothings hanno già un curriculum di tutto rispetto. Un disco trionfale prodotto da Steve Albini (Attack On Memory) e uno da John Congleton (Here and Nowhere Else), gli elogi della critica-che-conta capace di annoverarli tra i gruppi rock più significativi di questi anni (Pitchfork mette i loro dischi sempre abbastanza alti nelle classifiche degli anni in cui escono). Soprattutto, con Last Building Burning i Cloud Nothings confermano quello che negli anni abbiamo sempre sospettato: la capacità e l’umiltà, lavoro dopo lavoro, di non sedersi sugli allori e ripetere un copione già sentito portando a casa il risultato per mettersi a servizio della loro musica e cercare in qualche modo di evolvere — sia come musicisti, sia come scrittura — dentro il canovaccio che li porta a essere comunque una band rock erede del’hardcore, del post-punk e del noise.
Last Building Burning infatti non concede niente. Non è melodico, anche se è fatto di canzoni capaci di fermarsi proprio lì nella corteccia cerebrale (la progressione di Offer an End, ad esempio). Non ha “singoli” radiofonici (e sì che in passato sono stati in grado di scriverne, come I’m not Part of Me), perché preferisce optare per un vero e proprio assalto sonoro costituito da un muro di chitarre elettriche distorte che non la smette un attimo di crescere (come nei quasi 11 minuti di Dissolution), una sezione ritmica mitragliante e un cantato urlato e ancora più disperante del solito (il primo estratto, di qualche mese fa, The Echo of the World, era già un manifesto programmatico). Potremmo quasi dire che pur non avendo pezzi generazionali (qualunque cosa voglia dire, ma per i Cloud Nothings vuol dire Wasted Days, la canzone di Attack on Memory che si risolveva nell’anthemico verso «I thought I would be more than this» urlato per diversi minuti) dimostra di avere un’anima da disco — cioè di quei cosi che nessuno compra più e andrebbero ascoltati nella loro interezza da inizio a fine — matura e ancora una volta capace di affermarsi nel mondo. Se deve esserci un modo di suonare la chitarra, oggi, è questo.