Il bastone. Il luogo in cui si nasce è accidentale, inutile romanzarci sopra. Al contrario, la bolzanina Lilli Gruber sul Sudtirolo, ribattezzato “la mia Heimat” – ergo: l’estensione uterina del proprio tracotante ego – scrive un romanzo ‘a tesi’, con album di famiglia in allegato, non richiesto (cosa importa al lettore di “mio padre, Alfred Gruber”, e del marito Jacques ,“compagno di esperienze e di ricerche”, o di “mia sorella Friedricke, detta Micki”, mica Lilli è la Principessa Sissi…), che è un po’ narrazione un po’ saggio, insomma, non è né zuppa né pan bagnato. Il punto focale di Inganno è la cosiddetta ‘Notte dei Fuochi’, accaduta nel giugno del 1961: una sfilza di atti terroristici compiuti per ribadire la necessità, costi quel che costi, della secessione del Sudtirolo dall’Italia. In verità, insegna Lilli, il secessionismo sudtirolese va ben al di là degli angusti confini dell’Alto Adige: quella fetta montana diventò una specie di ‘ombelico del mondo’, avamposto caldo della Guerra Fredda, dove si scontrarono servizi italiani, nazisti risorti, Cia, mercenari e ingenui.
La storia, insomma, è narrativamente fertile. Solo che Lilli fa di tutto per inquinarla. Intanto ci propina norme giornalistiche di barbarica ovvietà (“Il giornalismo è un mestiere serio… Il suo principio, potremmo dire la sua anima, è il rispetto dei fatti”: mai letto un giornalista affermare il contrario), poi indora la storiella con patetici squarci da cartolina turistica sudtirolese (“Sta calando una gelida, azzurra sera d’inverno su Innsbruck. Vedo il cielo fiammeggiare nel tramonto, dal salottino all’ultimo piano della grande casa di Herline e Klaudius Molling, nel più bel quartiere residenziale del capoluogo del Tirolo austriaco”). I difetti sostanziali, tuttavia, sono due. Il primo riguarda gli inserti narrativi – la vicenda di Max, Peter e Klara, ragazzi di belle speranze corrotti dal corso della Storia – del tutto inessenziali. Anzi. Brutti, sbagliati, sgorbi. La Gruber è narrativamente frigida (quando “Konrad fa scivolare la mano sotto il lenzuolo e la posa sul seno di Klara” non siamo scossi da alcun fremito), non ha ritmo né misura musicale, avanza, militare, redigendo frasi che neppure nel più bolso dispaccio d’era sovietica (esempio: “La Cia ha appena fatto un bel buco nell’acqua, con quel colpo di Stato fallito contro il regime di Fidel Castro. Il disastro della Baia dei Porci è stato molto dannoso per il prestigio degli Stati Uniti, sempre impegnati in un epico braccio di ferro con l’Urss”).
Il secondo difetto sta nel sale giornalistico. Si parte con una intervista a Giorgio Napolitano (“mi riceve nel suo luminoso ufficio di Palazzo Giustiniani, accogliendomi con la sobria cortesia delle istituzioni”), di rara noia, per chiudere con una laccata e inchinata chiacchierata con Massimo Cacciari (“il professor Cacciari ha elaborato già nel 1997, nel saggio L’arcipelago, una teoria ancora attualissima…”). D’altra parte, il resto delle interviste – a Eva Klotz, a Luis Durmwalder, a Maurizio Sulig, ad esempio – non aggiunge molto a ciò che già si sa o si è scritto in merito alla vicenda sudtirolese. Infine, eccola, mortificante, la ‘tesi’, che manda in macelleria il romanzo e ogni tentativo di vendersi come scrittore. “Il mondo è preda dei capricci di governanti come Donald Trump e Vladimir Putin. Fino a farci temere che sia a rischio l’idea stessa di democrazia basata sul consenso, su cui si fonda l’Europa. Le tentazioni sovraniste, xenofobe, liberticide si moltiplicano…”. Ora abbiamo capito. La Gruber, pure lei, ha scritto il romanzo ‘antisovranista’, genere letterario ormai consolidato. Le nobili intenzioni non hanno mai prodotto buoni libri: la Gruber è l’acuto esempio che conferma la norma. Piuttosto, è imperdonabile piegare la letteratura per i propri personali fini politici, ideologici.
Lilli Gruber, Inganno, Rizzoli 2018, pp.432, euro 19,50
La carota. Politicamente la pensano all’opposto: una, la Gruber, ritiene che la “democrazia basata sul consenso” sia da difendere dalle forze oscure degli xenofobi-sovranisti-liberticidi, l’altro pensa che la democrazia sia una truffa, tanto che contro la democrazia ha scritto un Manifesto sugoso e corrosivo (titolo: Sudditi), consapevole che “democrazia e aggressione, democrazia e guerra, democrazia e servaggio per un paio di secoli, non sono stati termini antitetici, ma, al contrario, quasi sinonimi”. Ma questi, in fondo, sono aspetti strettamente secondari, le idee sono fole, vanno come le foglie all’aria, a me preme la forma, la tirannia dell’estetica, l’assolutismo della scrittura. Su questo piano, francamente, non c’è gara: la Gruber scrive come parla, con ritmo televisivo, i suoi libri durano lo spazio di una puntata di Otto e mezzo, chi se li ricorda più? Al contrario, Massimo Fini, che continua a praticare con rabbiosa tenacia l’arte giornalistica, quando scrive libri pare un incrocio tra Seneca e Rick Deckard, tra Montaigne e il Maestro Yoda, è un classico del futuro.
Basta leggere il tomo agiografico Confesso che ho vissuto, che raccoglie tre libri personali diversi per istinto e delirio. Il più bello, parere mio, è Ragazzo, che ha misura stoica e natura cinica ed è una letale litania sulla vecchiaia (“L’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce. È vero che si può morire a qualsiasi età, anche a vent’anni, e che la morte è certa. Ma una cosa è immaginarla in un futuro indefinito, altra è quando ti cammina a fianco. Una cosa è se si tratta di una certezza lontana, remota, altra è se sai che sei al finale di partita. E che non ci saranno supplementari”). Il bello è che Fini non si ‘mette a nudo’, denuda te, hypocrite lecteur, più leggi più ti fai del male ma è nella spina l’acme della bellezza. Scrivendo con la scintillante sapienza di un boia che ti sega il collo con l’uncinetto, ricamando, Fini dice l’indicibile dell’Atto sessuale, provocando e smutandando, nell’indispensabile Di[zion]ario erotico: “se potesse l’uomo farebbe volentieri a meno di scopare. È un dovere biologico e sociale, una fatica, uno stress, implica un’erezione problematica, costringe il maschio a mettersi alla prova, a sottoporsi al giudizio della donna per qualcosa che, in definitiva, va a vantaggio molto più di lei che di lui.
Invece nei preliminari, cioè nel gioco erotico vero e proprio, è lui il padrone della situazione, che maneggia, scompone, sconcia a suo piacere l’inquietante giocattolo (ma anche questa è illusione e apparenza: il gioco erotico è necessario all’erezione del maschio, ma in funzione della femmina, la vera protagonista dell’amplesso)… In ogni maschio quindi si nasconde potenzialmente un finocchio. Scopare è il dovere, starsene con gli amici il piacere”. E poi, all’improvviso, si passa dal fango all’etere, dalla carne alla mente, dal corpo alla verità del tutto: “A volte ho la sensazione, quasi fisica, di essere vicinissimo alla Verità, a sapere finalmente qual è il senso del tutto. Non per via logica, naturalmente, ma intuitiva. Solo un niente, un velo sottilissimo (come il platonico velo di Maya), mi separa dalla Scoperta e basterebbe un ultimo, e sia pur tremendo, sforzo di concentrazione per squarciarlo. Ma sento, intuisco, che se ciò mai avvenisse morirei nello stesso istante. E mi ritraggo inorridito”. Fino a quell’oro del senso, bellissimo, evangelico, dolente: “Ho sempre pensato che la verità, quel poco di verità relativa che è dato di conoscere a un uomo, si trovasse molto di più nei bassifondi, nella ribellione, nel dolore, nella sofferenza”.
Massimo Fini, Confesso che ho vissuto.Esistenza inquieta di un perdente di successo, Marsilio 2018, pp.552, euro 22,00