Uno la cercherebbe dei festival di filosofia, nelle rassegne sul cinema, nelle mostre di fotografia o alle serate letterarie. È invece l’intelligenza, dispettosa come un diavolo, si trova nei festival sulla comicità. È più a suo agio in mezzo alle battute, ai giochi di parole (quando sono rivelatori), al surreale e al buffo.
Si potrebbe dire che ridere o far ridere sia la cifra del nostro tempo, ma lo hanno già detto in tanti (e poi chissà se è vero). La verità è che il comico è, come dice Stefano Bartezzaghi, organizzatore del festival “Il senso del ridicolo”, rassegna livornese su commedia, umorismo e satira arrivata alla sua terza edizione, «uno specchio della realtà. Ma deformante». È però difficile deformare nel modo giusto, perché il crinale che divide la risata dall’orrore, l’umoristico dal grottesco e la rivelazione dal disincanto è sottilissimo. Come l’intelligenza, appunto.
«Ci sono molti modi diversi per far ridere», ricorda Michele Smargiassi, passando in rassegna le categorie freudiane del riso (come contrasto, allusione, conflitto), tutti modi in cui il reale mostra pieghe e spiragli improvvisi, strappi imprevisti: e possono essere illuminanti, come i giochi di parole della storica trasmissione Rai del Dirodorlando (“Dirò d’Orlando”, ricordate Ariosto?), ri-raccontati da Bianca Pitzorno e Davide Tortorella (figlio di Cino, che fu autore del programma), o desolanti, come le pagine umoristiche e disperate di Carlo Emilio Gadda, recitate al teatro Goldoni da Fabrizio Gifuni. Sono la dimostrazione che la sofferenza – ma «è dalle ferite che nasce il genio», sostiene l’attore – non riesce (forse non può nemmeno) a essere seria e tragica fino in fondo: perché nel momento meno atteso, quello più cupo e doloroso della scrittura gaddiana, salta sempre fuori una gallina (o un pappagallo. Comunque sì: un pennuto).
È, in fondo, il teorema della Viennetta, teorizzato da Rocco Tanica, anche lui ospite della rassegna: «Ogni opera comica deve avere più strati. Anche la canzone demenziale: può avere parolacce al suo interno ma non devono mai essere facili, buttate lì per strappare risate a buon mercato. Serve sempre in questi casi quello che definisco “un controvalore in oro”, che può un’idea musicale originale, o un tema degli archi raffinatissimo». Per lui, si capisce, è la profondità che compensa l’ironia. Per Gadda, invece, il contrario: la realtà è irriducibile al solo dolore, anche nel momento della sua cognizione.
Insomma, si ride perché è necessario sdrammatizzare, il mondo troppo serioso risulta falsato. Ma si ride anche per combattere: «Quando i miliziani dell’Isis, qualche anno fa – racconta Paola Cortellesi (anagramma: Stelle o caporali) – dicevano che sarebbero arrivati a Roma, la risposta dei romani fu: “Non pijate il raccordo, me raccomando”. Quale mitragliata può davvero abbattere la risata di chi ti sfotte?», si chiede l’attrice/cantante/imitatrice.
E allora così succede che l’umorismo si trasformi da strumento di condivisione intima, di riconoscimento di valori, di intesa sociale (a volte sfruttato proprio per questo dai politici per sembrare più vicini al popolo, come dimostra il leader di Possibile Pippo Civati, ospite insieme a Francesco Costa del Post per un incontro sulla comicità dei politici) in un grimaldello della realtà: porta a guardarsi dal di fuori e a osservare se stessi con uno sguardo nuovo. Per questo, apre a nuove possibilità, fino alla contestazione sociale.
Perché la risata può diventare un’arma per soverchiare le regole, dileggiare i potenti, immaginare altri mondi. Del resto, nelle semplici imitazioni, come spiega sempre Paola Cortellesi, altro non si fa che «prendere un personaggio facendolo muovere come si vuole, in un contesto in cui il ridicolo, in altri casi ben camuffato, viene fatto risaltare». Oppure facendosi beffe, come ha fatto la giornalista di Sette Irene Soave, delle assurde regole di galateo per le signorine che cercano marito. Assurde perché inefficaci, a volte contraddittorie e, soprattutto, funzionali al mantenimento dello status quo.
Una risata può liberare (o seppellire, come dicevano gli anarchici dell’800), anche quando si presenta nelle forme più innocue e cerca solo di rendere meno pesanti le catene (metaforiche) cui è legato ognuno di noi ogni. Ma chi ride, si sa, si agita e le muove. E potrebbe succedere che si accorga di averle.