Lasciate perdere le noiose ramanzine di Erri De Luca, molto meglio il De Luca biblista del tempo che fu

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato alla settimana. Il suo ultimo libro, "Il giro dell'oca", è un concentrato di vanità e ovvietà. Meglio leggere "Esodo/Nomi", avventurosa traduzione dell'autore del libro sacro

Il bastone. Dopo la lettura, percezione doppia. Pare di avere ascoltato lo stesso disco. Come i cantanti di successo che, per non lenire la fama, pubblicano sempre la solita canzone, sempre più liofilizzata, con consueto ritmo e medesimo lamento. E poi. Sembra Enzo Bianchi. Un guru qualunque in cui ci si rifugia, dopo la torbida giornata metropolitana, per ingollare acide pillole di salvezza. A Erri De Luca, dopo aver aperto, nel 2011, una Fondazione – scopo precipuo: “Raccogliere e organizzare il corpus dei materiali autografi e a stampa esistenti e di redigere un catalogo generale dell’intero patrimonio, la digitalizzazione dei manoscritti e altri materiali originali dell’autore”, pazzesco, Erri si pensa Joyce, probabilmente, con l’aggravante che il savio James, quando non sapeva di essere James Joyce, si dannava a scrivere l’Ulisse, mica a raccogliere “materiali originali” o organici – non resta che aprire un monastero, una casa chiusa piena di fan. Il giro dell’oca oltre a far rimpiangere un libro pressoché omonimo targato Feltrinelli – lo spassoso Il giuoco dell’oca di Edoardo Sanguineti, ora fuori catalogo – mi fa lacrimare sul talento perduto di Erri, ridotto a un anonimo redattore di ramanzine sul tempo che fu, che fa. Occasione romanzesca debole – di sera, davanti al camino, appare allo scrittore lo spettro di un figlio mai avuto e poco atteso – quasi subito fasulla – l’interlocutore parla come il narratore, ne indossa lo stile, così il sugo del romanzo si rivela una schizofrenica chiacchierata di Erri con se stesso – e scrittura che intende raccontare “un poco di vita scivolata”, ma scivola via, in uno tsunami di frasi fatte, pepate di ‘deluchismo’ (ergo: l’arte di far credere profondo il superficiale, senza fondo). Il filotto di vanità e di ovvietà a mitraglia nella “storia più intima” – così promette l’ala editoriale – di De Luca, lascia un po’ sconcertati: “Il profumo dei suoi capelli lavati e asciugati al sole mi saliva al naso, caldo, intenso” non lo scriverebbe neppure una youtuber in fermento ormonale inventata romanziere da Mondadori; “l’invidia degli altri… esiste, è un disturbo diffuso e in genere nuoce a chi la prova” è una considerazione tanto vaga che avrebbe vergogna a ribadirla perfino un prete dal pulpito, esperto nelle buone parabole di cattivo gusto; concetti filosofici come “che potenza la vita, passa sopra a tutto” candidano Erri alla palma di Osho della letteratura italica. Il resto, è un patchwork di frasi lette qua e là e scritte meglio da ben altri: “Porto con me la lingua italiana che mi fa abitare ovunque. Esilio per me sarebbe scrivere in un’altra lingua” è l’unicorno estetico di Iosif Brodskij, espresso in libri davvero memorabili come Dall’esilio e Fuga da Bisanzio; “Napoleone, Tolstoj, Raffaello condivideranno la fossa comune con i miliardi di anonimi del nostro tempo” sembra un pensiero rotondo perché è già stato espresso, con altro piglio, da troppi, da Leopardi, da Vasilij Grossman, da Massimiliano Parente, ad esempio; “Sono un’assemblea di me stessi diventati altri e diversi”, ciliegina sull’ego trionfante, è una variante anomala della griffe più nota di Arthur Rimbaud, “Je est un autre”. Narrativamente impalpabile – per vezzo: ma un conto è Marcel Jouhandeau o Julien Green (mica ho detto Pascal), un conto il pio Erri – De Luca ci dona un formidabile sketch a pagina 49. C’è lui all’autogrill, è “domenica mattina”, ordina un panino, va a fare pipì, ma “avevo sbagliato servizi”. Poco dopo, turbina una banda di suore a svuotare la virginea uretra. Erri s’arrampica “in piedi sulla tazza di un gabinetto di autostrada”. “Ho passato il quarto d’ora più ridicolo della vita”, ricama lui. Ecco. Sgrammaticando la metafora. La letteratura è un’area lurida, in mezzo al niente: ogni tanto passa qualche santo, tutti vi fanno i bisogni. De Luca ha fatto il suo. Ora si vergogni un po’.

Erri De Luca, Il giro dell’oca, Feltrinelli 2018, pp.122, euro 13,00

La carota. Avevo una passione miliare per il biblista Erri De Luca: era dotato dell’analfabetismo necessario alla curiosità, s’aggirava con l’imperio dell’idiota tra l’idioma ebraico perché solo così è possibile estrarre il miele e il fiele da quelle lettere, metallurgia teologica. Il suo Esodo/Nomi – era il 1994 – è ancora bellissimo, sia per la fragranza delle connessioni (“Investitura, viaggio vagabondo, prodigi e terra promessa: questi punti cardinali di ‘Esodo/Nomi’ vengono ricalcati anche da una grande opera letteraria: il Don Chisciotte”) che per il linguaggio, che ha autentica tempra di deserto (“E stese Mosè il suo bastone contro i cieli e Iod dette voci e grandine e andò fuoco a terra”; le annotazioni, con scintillio di umiltà, sono consustanziali al tradotto). Anche Kohèlet/Ecclesiaste (1996), benché imparagonabile al vigore agito lì da Ceronetti, è un buon esercizio, soprattutto perché Erri, ispirato dal biblico, fa fiorire diversi apoftegmi, spesso riusciti, al netto dell’agiografia (“Leggo una pagina ogni mattina tra le cinque e trenta e le sei e trenta, ora in cui esco per cominciare la giornata lavorativa”). Da lì, dall’altare biblico, mi sono mosso a leggere il resto: Aceto, arcobaleno (1992) mi parve un buon libro, con una sua austera, involuta missione narrativa; una ragazza mi regalò In alto a sinistra (1994), con le sue annotazioni e sottolineature (eccone una, tratta da Sessantatré a uno: “L’intonaco del cielo come un soffitto marcio fa piovere su di noi una pioggia dura… non ho mai visto tanti cieli sopra di me come quella sera… restano solo gli occhi tra noi per ascoltarci nel fragore”). Bello. Continuai a leggere. Tu, mio (1998) mi accadde come una specie di Andrea De Carlo in codice morse; In nome della madre (2006), scritto sul torso della vicenda di Maria di Nazareth, mi suonò sgarbato, presuntuoso; la traduzione del libro di Ester (2014) un pretesto per far risuonare il proprio nome dall’altezza biblica. Molto presto, De Luca prese a essere Erri De Luca, lo scrittore ruvido, che va in montagna, che scrive rado e sgrammaticato, che mangia pane imbevuto d’olio e ha la faccia di un Clint Eastwood partenopeo. Insomma, era diventato un Mauro Corona senza bandana, un ‘personaggio pubblico’, uno scrittore con uno ‘stile’, un uomo circoscritto – e non più a tentare gli inferi e gli infiniti. Peccato. Fu lì, allora, che il De Luca scrittore, il biblista che usa la cazzuola al posto della piuma d’oca, finì, controfigura di sé, autore del medesimo libro, né più né meno che un Bobby Solo che quando gli chiedono, ancora, Una lacrima sul viso, esegue, sorridendo – imprecando, in cuor suo.

Erri De Luca, Esodo/Nomi, Feltrinelli 1994

X