Leonard Bernstein: perché non c’è niente nella musica come la Nona di Beethoven

Un estratto dal memoir di uno dei più grandi compositori e direttori d’orchestra del Novecento. Una lettera a un amico, in cui spiega perché dirigere la celebre sinfonia del compositore tedesco è un’esperienza che non ha eguali

Lettera a Franz Endler: la Nona di Beethoven

Scritta al critico musicale della Neue Freie Presse, Vienna, 20 aprile 1970

Caro Endler,

queste note sono state scritte dopo la straordinaria esperienza di dirigere due esecuzioni della Nona sinfonia nello spazio di sei giorni una dall’altra: una con la Filarmonica di Vienna, a Vienna, e l’altra con la Boston Symphony Orchestra, a Boston. Sono sempre stato consapevole dell’estrema varietà interpretativa di qualunque opera di Beethoven, ma mai in modo così acuto come in questo caso, trattandosi di un’opera tanto misteriosa, complicata, sfuggente, con un’orchestrazione così poco ortodossa e con due grandi orchestre di natura così diversa. E quest’anno, in cui siamo tutti assolutamente Beethoven-consapevoli, è più evidente che mai come Beethoven, fra tutti i compositori, sia il più «interpretabile». La ragione potrebbe essere la complessità del suo pensiero sinfonico, ma non è tutto. Ora capisco che è l’esatto opposto – la totale semplicità del suo pensiero. È una semplicità basilare, profondamente creduta, elementare che necessariamente favorisce l’interpretazione, allo stesso modo delle più semplici e basilari affermazioni (Fiat lux; Cogito ergo sum; Vanitas vanitatum; Beati gli umili; l’Esistenza precede l’Essenza; Dio è Uno; Dio è Trino; Dio è morto.)

Nel caso della Nona di Beethoven non è questione di cambiare, nell’esecuzione, da una concezione estrema all’altra, ma piuttosto di enfasi inclinata verso un estremo o l’altro. Per esser chiari cercherò di precisare questi estremi.

Il primo è una lettura della partitura letterale, fedele, accurata nel ritmo e nelle dinamiche, senza ritocchi o aggiunte allo strumentale, senza pause gratuite o ritardando o rubati, fedele alle indicazioni controverse (e qualche volta impossibili) del metronomo, senza aggiustamenti dinamici a causa dell’equilibrio orchestrale. Chiamiamolo approccio Alfa. L’altro, l’approccio Omega, sarebbe una concezione molto romanticizzata, basata su idee extramusicali come il Caos Primigenio (le battute iniziali), la Creazione Germinale unicellulare (il primo tema), culminante con lo Sviluppo dell’Uomo nel pieno della Ragione e dello Spirito, inclusi fermate, rubati, esagerazioni dinamiche e/o cambiamenti, tempi vacillanti, meandri poetici, indulgenze personali e soggettive. Da qualche parte fra Alfa e Omega, stanno tutte le esecuzioni della Nona che abbiamo ascoltato; ma io ho raramente sentito due esecuzioni dallo stesso interprete così divergenti fra i due estremi alfabetici come le due che ho sentito dirigere da me stesso.

Per esempio, le prime sedici battute. Le sestine di apertura dei secondi violini e dei violoncelli devono suonare come sestine ritmicamente agitate, elettrizzanti anche nel loro pianissimo, o devono emergere come un tremolo indistinto («Caos Primigenio») con vitalità ritmica, ed essere assorbite nelle note pedale dei corni? La prima nota del tema di due note, la biscroma, deve essere trattata letteralmente come una biscroma, o deve coincidere con la sesta nota della sestina? Le graduali entrate delle nuove note pedale (clarinetto, oboe, flauti) devono essere avvertite come ingressi o devono essere misteriosamente preesistenti come note sottintese delle quinte dei corni? Il crescendo deve essere il più graduale possibile, stante la durata molto breve del tutto, o deve eruttare come uno scompiglio sotterraneo? Il fortissimo, quando arriva, ci deve cogliere alla sprovvista, senza un allargamento preparatorio dell’anacrusi o deve frangersi su di noi come un’onda che vediamo arrivare, che raggiunge la sua massima altezza, ci minaccia prima di abbattersi con tutta la sua forza elementare? Dovrebbe…

Molte altre sono le domande che sorgono spontanee in questi primi venti secondi di musica. Ma nessuna di loro può veramente avere una risposta nei termini Alfa/Omega, se non da parte di un direttore che voglia mostrare se stesso più che Beethoven. Non cercherò di dare quelle risposte in questa sede. Posso dire, in modo molto generale, che l’esecuzione di Vienna inclinava molto verso la direzione Omega, quasi con presentimenti mahleriani – più sostenuto, forse più romantica. L’esecuzione di Boston favoriva la chiarezza, la prontezza degli attacchi, quello che si direbbe un approccio più classico.

Si potrebbero dare molte spiegazioni. Una è la grande differenza acustica delle due sale, il Konzerthaus e la Symphony Hall. Un’altra è la peculiare tradizione esecutiva orchestrale. Un’altra potrebbe essere la qualità individuale dei solisti – clarinetto o violino di spalla. O ancora la differente costruzione degli strumenti – la tromba americana contro quella tedesca. Ma sono tutti condizionamenti esteriori: sono forze che interagiscono con il direttore, il quale in un certo senso deve prendere esempio da loro, permettendo che il clima sia formato da loro, dal momento che in entrambi i casi l’orchestra non è la «sua» orchestra.

Suonare la musica di Beethoven è consegnarsi completamente allo spirito infantile che viveva in quell’uomo triste, goffo e violento. È come essere sedotti da una seducente innocenza

Ammetto che si tratti solo di indebita modestia direttoriale. La verità è che in entrambi i casi le esecuzioni venivano dal podio, erano basate sul rapporto con quella onnipotente partitura, a partire da quel momento. Sebbene ci fossero stati solo quattro giorni fra l’ultima esecuzione a Vienna e la prima prova a Boston, avevo proceduto a un riesame cruciale della partitura in quei quattro giorni, come avevo fatto nei giorni precedenti le prove a Vienna, come faccio sempre prima di qualsiasi esecuzione di una grande partitura, non importa quante volta l’abbia già diretta. E ogni volta c’è una differenza come fra Mi e Ni. Ma con Beethoven le differenze tendono a essere più grandi rispetto a ogni altro compositore. Si va da Gamma a Phi e da Kappa a Rho.

Perché dovrebbe essere diverso? Perché Beethoven si può sempre riscoprire? Probabilmente potrei spiegarlo, o cercare, con diecimila parole in più. Ma forse sarà sufficiente un esempio solo.

In una di queste esecuzioni della Nona (non so quale) scoprii un nuovo elemento nella musica di Beethoven. Immaginate – un nuovo elemento nella musica di Beethoven! È possibile? Non è già stato detto tutto su Beethoven? Eppure è successo: scoprii che la musica di Beethoven aveva charme. Cosa? Charme in Beethoven? Di tutte le qualità questa era la meno prevedibile. Charme, da quella faccia fiera, da quella criniera leonina, da quel corpo rachitico e butterato? Eppure doveva essere ritrovato, sepolto sotto strati di severità, austerità, perseveranza senza compromessi, martellamento appassionato, grinta demoniaca, libero misticismo. Là sotto giace lo charme. Sotto? Ma lo charme non è un attributo esteriore? Non lo charme di Beethoven. Non è del tipo timido, né civettuolo, né rococo, né mozartiano, né sofisticato. È lo charme della profonda semplicità: la pura semplicità della fiducia infantile. Cosa c’è di più profondamente affascinante della fiducia infantile? È totale, irrefrenabile. Suonare la musica di Beethoven è consegnarsi completamente allo spirito infantile che viveva in quell’uomo triste, goffo e violento. È come essere sedotti da una seducente innocenza. Senza la più profonda deferenza non è possibile suonare l’Adagio della Nona. O, come del resto, lo Scherzo. O, sa il cielo, il primo movimento. E il Finale? Più di tutti. È semplicemente ineseguibile se non andiamo fino in fondo con lui, in totale, prepuberale fede, con quella certezza d’immortalità che solo i bambini (e i geni) possiedono veramente – andare fino in fondo e gridare «Brüder!» «Töchter!», «Freude!», «Millionen!», «Gott!» ma specialmente «Brüder!» che dopotutto è un grido infantile. Dobbiamo crederci per suonarlo. Ecco perché noi cinici abitanti di questo mondo siamo ancora affascinati da quel bizzarro, antiquato concetto pronunciato da Beethoven: tutti gli uomini sono figli di Dio. È l’irresistibile charme del credo di Beethoven che rende imperitura l’idea e la musica.

Credo fermamente che il rapporto dell’esecutore con quel credo determini la sua interpretazione. È l’abilità personale a identificarsi con il fanciullo affascinante Beethoven, con lo spirito innocente della Grazia, che consente di ricreare la musica. Nella misura in cui tali identificazioni, tutte quelle sestine, biscrome, crescendi, fortissimi e tutto il resto, vadano naturalmente e inevitabilmente al posto giusto.

Questa è la risposta al mio indovinello sull’esecuzione di Vienna e di Boston. Qual era il rapporto fra speranza e disperazione a Boston e a Vienna? Quanto erano lunghe le mie braccia in una città o nell’altra – lunghe abbastanza da abbracciare i miei fratelli, l’orchestra; o solo la sezione dei violoncelli; o tutti incluso il coro? Quanto sono riuscito a essere fanciullo? Quanto credibile? Quanto disposto a deporre lo scetticismo? Quanto disperato per il Vietnam, per Israele, per l’Unione Sovietica, per un nuovo amico perduto? Quanto fiducioso nella nuova musica, per Kreisky, per gli afroamericani, per la pace? Brüder!

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