La vera notizia sulla Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Def) 2018 è che non esiste. Al suo posto c’è un messaggio subliminale–politico di cui è destinatario principale la Commissione Europea, e che ha, forse, il merito paradossale di avvicinare una resa dei conti, utile anche a chi ritiene che senza Europa non c’è futuro.
Sul sito del Ministero dell’Economia della Nota al Def non c’è traccia. L’ultima notizia che il Ministero competente dell’intera partita riporta è, con una qualche dose di involontaria autoironia, il discorso del Ministro che a Cernobbio, il 10 Settembre, anticipava di voler crescere all’1,6%, precisando – come io personalmente riterrei possibilissimo – di volerlo fare senza ricorrere al deficit. La Nota al Def però non c’è nonostante la Legge (del 2011) preveda che essa va presentata in Parlamento entro il 20 Settembre. E che i comunicati stampa della Presidenza del Consiglio ne abbiano annunciato l’approvazione Giovedì scorso, scatenando un dibattito che dura da una settimana. Per ora, appunto, su un oggetto inesistente.
Eppure le leggi di stabilità sono fatte – principalmente – di dettagli. Quelli sulla distribuzione delle diverse poste finanziarie: se, ad esempio, alla leva fiscale fossero destinate più risorse, ciò potrebbe fare differenza cruciale sulla crescita. Ma non meno importanti sono i dettagli amministrativi dietro ai quali si è, tante volte, nascosto il diavolo del fallimento e che, stavolta, potrebbe nascondere, al contrario, la sorpresa di qualche scelta intelligente: ad esempio, sui centri per l’impiego che potrebbero funzionare assai meglio, anche se solo applicando tecnologie e riorganizzazioni che lo stesso Davide Casaleggio intuirebbe immediatamente.
Le regole e il buon senso suggerirebbero di fare prima il calcolo di quanto costa cogliere determinati obiettivi politici o di politica economica, di determinare dei saldi su questa base; e infine di limare a ritroso i saldi se si sforano dati vincoli. Stavolta, facciamo il contrario
Le regole e il buon senso suggerirebbero di fare prima il calcolo di quanto costa cogliere determinati obiettivi politici o di politica economica, di determinare dei saldi su questa base; e infine di limare a ritroso i saldi se si sforano dati vincoli. Stavolta, facciamo il contrario. La politica diventa, definitivamente, prosecuzione della comunicazione con altri mezzi. Ed è, forse, un bene. Perché in fondo è stato sempre così, e ora, finalmente cade un’ipocrisia che ci impediva di vedere il problema.
Non conta, non è mai davvero contato, entrare nei dossier di come sosteniamo la trasformazione (abolirei la parola “riforma” perché evidentemente essa si portar dietro un problema metodologico e di approccio) di un Paese. Non ha lo Stato, da tempo, le risorse intellettuali, manageriali per seguire, governare il progetto di cambiamento che ad una legge finanziaria dovrebbe essere legato. E non hanno tempo, neppure, i commentatori, gli analisti finanziari per capire cosa c’è dentro la scatola nera di un documento così importante.
E cade anche l’ipocrisia di un’interlocuzione con l’Europa che ha, sempre, cercato di salvare le forme di una retorica che non funziona più, per rispettare un Patto al quale nessuno sembra più credere.
Negli anni scorsi arrivavamo a risultati sempre in deroga inventando che i terremoti fossero “eccezionali” in Italia o che gli sbarchi fossero un’“emergenza” in un Paese che di emergenze drammatiche ne ha anche altre. Per stare in un Patto che è rispettato – se consideriamo il parametro più importate, quello sul debito – solo da 6 dei 19 Paesi che vi aderiscono: tra di essi c’è solo l’Olanda tra i Paesi fondatori e tra gli altri 13 solo la Germania e la Grecia stanno, almeno, riducendo il rapporto tra debito e Pil.È ora di affrontare la questione urgentissima di dare all’Unione la flessibilità, il pragmatismo, l’efficienza senza la quale finisce con il diventare il simulacro di se stessa
Oggi, senza se e senza ma, questo governo parte dicendo che farà deficit rispetto al PIL per 2,4% all’anno per tre anni. Prima ancora di dire come. Nell’angolo c’è la Commissione Europea – indebolita perché a fine mandato, preoccupata per le elezioni – e, però, a questo punto, chi “vuole bene all’Europa” deve porre, con forza la questione della “rifondazione”. Facendo, finalmente, cadere alcuni tabù, a partire dall’impossibilità per uno Stato di fallire – in maniera controllata – o, anche, di uscire in maniera ordinata – dall’Unione Monetaria.
Lo suggeriscono, da tempo, proprio alcuni dei consiglieri economici del governo tedesco ed è ora di affrontare la questione urgentissima di dare all’Unione la flessibilità, il pragmatismo, l’efficienza senza la quale finisce con il diventare il simulacro di se stessa. Aprendo sul terreno del futuro la sfida politica che verrebbe drammaticamente persa se continuassimo a difendere lo “status quo”.
Il governo del cambiamento ha il merito di costringere tutti ad una riflessione – non più rimandabile – sul tipo di Europa che vogliamo. Lo fa prendendo un grandissimo rischio e sottovalutando, forse, la variabile non controllata delle agenzie di rating il cui giudizio si trasferisce attraverso meccanismi diretti, formalizzati ai mercati. Anche questo è un aspetto che dovrebbe cambiare: un cambiamento che, con grande evidenza, l’Italia – per quanto forte della sua principale debolezza – da sola non può, però, affrontare.