Una schizofrenia mediatica odiosa per gli addetti ai lavori riguarda i due problemi della malasanità e dell’accesso programmato alle Facoltà di Medicina, comunemente detto numero chiuso. Argomenti polarizzanti e senza apparente nesso. Ad ogni episodio di (spesso presunta) malasanità, giornali, telegiornali, social si scatenano in un dibattito estenuante e raramente fruttuoso. Ad ogni concorso di ammissione alle Scuole di Medicina o alle Scuole di Specializzazione mediche, succede la stessa cosa in merito al numero chiuso. Queste due problematiche sono in realtà interconnesse e riguardano il più ampio problema della formazione dei medici in Italia, a sua volta intrinsecamente legato all’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale.
A questo proposito, un luogo comune duro a morire vuole che ‘di più sia meglio’. Servono, nell’ordine, più: ospedali, assistenza sul territorio, accessi a medicina, accessi alle scuole di specializzazione, medici. L’attuale bozza del programma di governo M5S-Lega rispecchia questo trend che, con alterne vicende, è proseguito per decenni, con governi di qualsiasi colore. O almeno fino al freno solo parzialmente imposto dal Governo presieduto da Mario Monti e all’attuazione della spending review, poi proseguita dal precedente Ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Ma davvero quantità significa anche qualità?
Il sistema di formazione dei medici in Italia prevede sei anni di studi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, un concorso di abilitazione per poter esercitare la professione (l’Esame di Stato), e un certo numero di anni di specializzazione o di corso per Medico di Medicina Generale, variabile dai 3 ai 5 a seconda della specializzazione che si sceglie. Il concorso di ammissione a Medicina è a numero chiuso, con dei quiz a risposta multipla incentrati su diversi argomenti considerati propedeutici. Quello di specializzazione, fino a pochi anni fa su base locale e svolto all’interno dell’Università nella quale lo studente sceglieva di candidarsi, è ora su base nazionale e segue regole simili: domande a risposta multipla in un’unica soluzione divisa in due sessioni, una su argomenti di medicina generale, l’altra su argomenti inerenti la specifica scuola di specializzazione che si intende frequentare.
Il numero chiuso esiste anche per un discorso meritocratico. Potete chiamarlo classismo, ingiustizia sociale, diseguaglianza, meritocrazia-dittatoriale, qualsiasi cosa
Questo percorso nasconde varie criticità. La prima riguarda i criteri di accesso alle facoltà universitarie e ai corsi di specializzazione, ossia l’accesso programmato o numero chiuso. Il numero chiuso esiste perché, come in ogni mercato del lavoro che si rispetti, una professione serve a soddisfare un’esigenza. Produrre più offerta senza una reale domanda è uno spreco di soldi, energie, e tempo. Lo dimostrano i dati sulla disoccupazione dei medici. Una fetta sempre più ampia di questi neo-professionisti non tenta neanche di proseguire la propria carriera in Italia e preferisce guardare all’estero. L’Italia, letteralmente, produce una quota crescente di medici che regala ad altri paesi. Il numero chiuso esiste anche per un discorso meritocratico. Potete chiamarlo classismo, ingiustizia sociale, diseguaglianza, meritocrazia-dittatoriale, qualsiasi cosa. Tuttavia, al netto degli ideologismi, le professioni ospedaliere sono ad alto rischio professionale e di contenzioso, con un pubblico che giustamente pretende il massimo dai professionisti a cui si rivolge. Una selezione all’ingresso e durante il percorso formativo è un’opzione difficilmente evitabile. Che le modalità di selezione all’ingresso siano discutibili e le opportunità di partenza per accedere ad una competizione equa manchino, è un altro discorso, sensato e in parte validato dai fatti. Ma questa è un’altra problematica, e richiederebbe un pezzo a parte.
Tornando in tema, la decisione sul numero dei posti annuali disponibili a Medicina è basata su diversi criteri, raggruppabili in due macro-categorie relativamente semplici: le esigenze della popolazione in esame e l’ottimizzazione delle risorse economiche disponibili. Esistono tonnellate di studi di settore, nazionali ed internazionali, che evidenziano questo punto. Traducendo, con le debite proporzioni, abbiamo bisogno di: 1) molti medici che trattino ipertensione, diabete, ipercolesterolemia, osteoporosi, e tutte quelle malattie estremamente frequenti nella popolazione – questi professionisti sarebbero i Medici di Medicina Generale; 2) relativamente meno medici ospedalieri che siano impiegati nell’assistenza ospedaliera di primo livello – medici di emergenza, traumatologia, anestesia e rianimazione, ortopedia, radiologia, chirurgia generale, etc.; 3) pochi medici esperti in materie iper-specialistiche quali la radiologia interventistica, la chirurgia toracica, la chirurgia plastica ricostruttiva, la neurochirurgia, i trapianti, etc. Questo riassunto del tutto incompleto rispecchia solo a titolo di esempio il razionale alla base dell’attuale organizzazione dell’assistenza sanitaria sul territorio italiano.
Nei fatti, questi rapporti numerici sono, in Italia, alterati quando non addirittura invertiti in diversi settori. Come se non bastasse, il processo di bando dei posti a Medicina attualmente in vigore è piuttosto contorto. Le Regioni stabiliscono il loro fabbisogno di medici su base triennale e sviluppano proposte che vengono poi vagliate dal Governo. Questo, a sua volta, produce una contro-analisi di verifica. La contro-analisi produce quindi un fabbisogno nazionale complessivo, che viene poi ulteriormente vagliato dalle organizzazioni professionali, sotto la supervisione della FNMCEO, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri). Infine, sulla base delle decisioni prese in precedenza, la Conferenza Stato-Regioni approva il piano nazionale e lo trasmette al MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca), che definisce il numero di accessi e lo traduce in un bando di concorso.
Ognuna di queste entità offre una propria lettura o interpretazione dei dati, che infatti non sembrano rispecchiare le esigenze della popolazione e risultano in un surplus netto di entrate. Citando il libro “Inserimento dei Giovani al Lavoro in Sanità” (pp 58-59, edizioni RUSANÓ), redatto da un gruppo di colleghi esperti in Sanità Pubblica, “[i] dati dimostrano l’esistenza di un disallineamento tra i bisogni di salute espressi dai territori e dai singoli Servizi Sanitari Regionali e le potenzialità formative delle Scuole e Facoltà di medicina e chirurgia e delle reti formative delle Scuole di Specializzazione di medicina. […] In altre parole, sono stati creati i presupposti affinché sia stata l’eccessiva offerta di professionisti a condizionare la domanda di operatori sanitari. Peraltro, il surplus di accessi ai corsi di medicina e chirurgia […] ha ingenerato delle forti restrizioni nell’accesso al diritto alla formazione post-laurea di medicina per le ultime generazioni di medici. I dati sono eloquenti”.
La seconda criticità riguarda l’accesso ai corsi post-laurea, le famose Scuole di Specializzazione mediche, e la loro durata. Si leggono in giro lamentele sulla disoccupazione dei medici da un lato e allarmi su una carenza serissima nei prossimi anni dall’altro. La verità è come sempre più complessa. Acclarato che esiste un surplus di medici rispetto alle esigenze reali, la distribuzione è anche mal calibrata sul territorio e sulla prevalenza delle malattie. Quindi una carenza c’è, ma non generalizzata, bensì specifica di alcune aree e di alcuni settori. Quando aree significa un’intera regione italiana e settori significa Medici di Medicina Generale, chiaramente stiamo parlando di un problema molto serio. L’ulteriore stortura è che il sistema italiano è estremamente ospedalo-centrico. Mira quindi a formare, in proporzione, molti più medici ospedalieri e molti meno Medici di Medicina Generale. Gli studi di Medicina Generale sono pertanto costantemente intasati e i pazienti tendono ad affollare il Pronto Soccorso, con i risultati che tutti leggiamo. La politica si indigna, lancia proclami, ma finora ha fatto poco o nulla per agire alla radice di questo problema, che è non l’unico, ma sicuramente uno dei fattori determinanti alla base della crisi del SSN.
La durata della specializzazione e la distribuzione della formazione sono altri due punti problematici. Discipline iper-specialistiche quali la cardio-chirurgia, la neurochirurgia, o la chirurgia generale, prevedono un training la cui durata massima è di 5 anni, incluso un periodo formativo iniziale in cui gli specializzandi devono ruotare in reparti diversi da quello di appartenenza per acquisire competenze di base. Nel Regno Unito la durata della formazione per discipline ad alta specializzazione è di otto anni complessivi, con il periodo di rotazione iniziale separato da quella che è la formazione chirurgica vera e propria – quindi un 2 + 6 o addirittura un 2 + 8. Questo periodo, come specificato nel sito del Royal College of Surgeons, viene spesso prolungato con un ulteriore anno o due di formazione iper-specialistica che renderanno lo specialista ancora più appetibile sul mercato (le ‘fellowship’).
C’è di più. La programmazione degli ingressi alle Scuole di Specializzazione risente a sua volta di una discutibile programmazione su base nazionale e una peculiare distribuzione delle specialità sul territorio italiano. Un esempio su tutte è la Neurochirurgia, che cito appositamente perché è la mia specializzazione. L’Italia possiede 134 Unità Operative di Neurochirurgia, e questa è probabilmente una stima al ribasso perché non include le strutture private o convenzionate. La popolazione dell’Italia è più o meno la stessa del Regno Unito, che di neurochirurgie ne possiede 40 – anche meno, considerando che alcune sono in realtà distaccamenti della stessa Unità. Questa situazione è simile per molte altre discipline ad alta specialità. Stiamo messi meglio noi? Non necessariamente. Benché il Regno Unito sia all’estremo opposto, la qualità principale di uno specialista competente è avere un’esperienza che comprenda molti, anzi moltissimi casi trattati, inclusi quelli più rari, che nella popolazione generale si vedono meno. Con un rapporto chirurghi/popolazione alto, questa esperienza si diluisce. Il chirurgo che vi ritrovate davanti in ambulatorio o peggio ancora al pronto soccorso potrebbe non aver mai visto un caso come il vostro, o averne visti troppo pochi. A quel punto sentirsi dire che l’Italia è un paese avanzato perché ha tanti chirurghi non so quanto possa essere rassicurante.
L’ultima, incredibilmente importante criticità riguarda la qualità dell’offerta formativa. Le attività delle Università e delle Scuole di Specializzazione mediche dovrebbero, teoricamente, essere sottoposte a vaglio continuo e a monitoraggio, per produrre specialisti all’altezza degli standard europei. Fra gli addetti ai lavori, è tristemente noto come la teoria si discosti radicalmente dai fatti. Online sono reperibili decine di sondaggi, alcuni amatoriali altri meno, che evidenziano una frustrazione generalizzata fra gli specializzandi italiani, soprattutto quando si parla di pratica. I nostri specializzandi ‘fanno’ meno e non sembrano esserne particolarmente contenti. Il dato che colpisce di più è la sproporzione assoluta fra l’attività di servizio e l’attività formativa vera e propria. Quest’ultima viene penalizzata oltre ogni misura soprattutto quando si parla di specialità chirurgiche, e lo specializzando viene spesso utilizzato come forza lavoro a basso costo per smaltire pratiche burocratiche o coprire attività di altre figure professionali. Finora, l’università italiana ha agito come poco più di un diplomificio, producendo specialisti scarsamente competitivi con i colleghi europei. Non a caso, spesso il neo-specialista emigra e si auto-costringe a lavorare per qualche anno in veste di ‘resident’ o ‘registrar’ (specializzando senior) per coprire le proprie lacune, e solo successivamente si cimenta nel lavoro da ‘consultant’ – il nostro Dirigente Medico.
L’Osservatorio Nazionale della Formazione Medica Specialistica è l’organo preposto a vigilare sulla qualità della formazione. Lo scorso anno, ha ‘bocciato’ ben 130 scuole su 1401, un provvedimento giudicato da alcuni non abbastanza severo. Questa bocciatura è figlia di un nuovo sistema di accreditamento che, per la prima volta, valuta la performance qualitativa e non solo quantitativa della singola struttura universitaria. Specificamente, si valuterà la qualità della produzione scientifica di chi è responsabile dell’insegnamento e la quantità di patologia tratta in modo appropriato nei centri specifici. È un inizio, ma abbastanza tardivo, considerando che processi simili sono a regime da decenni in diversi paesi del mondo.
Le soluzioni a tutti questi problemi sono semplici sulla carta ma terribilmente impopolari nella pratica. In breve, il sistema italiano produce troppi medici, o almeno troppi medici nei settori sbagliati, e la qualità dell’offerta formativa è scarsa o disomogenea.Il primo passo consisterebbe nello stringere ulteriormente le maglie degli accessi al numero chiuso e nell’implementare la medicina sul territorio a scapito di quella ospedaliera. Anche se non in maniera immediata né lineare, simili provvedimenti avrebbero come risultato netto quello di sfoltire gli accessi al Pronto Soccorso, aumentare la qualità e la quantità dell’assistenza immediata, e in definitiva anche ridurre il problema della disoccupazione dei camici bianchi. L’articolo 26 della Dichiarazione dei Diritti Umani parla di diritto allo studio per “livelli elementari e fondamentali”. Si parla anche di accessibilità “sulla base del merito” quando si tratta di istruzione superiore. In ambito italiano, non solo il diritto allo studio è garantito fino alle scuole superiori, ma le lezioni universitarie sono aperte a chiunque voglia parteciparvi. Confondere il diritto allo studio con il diritto alla professione è un errore, quando non fatto in malafede. I risultati sulla disoccupazione dei medici sono sotto gli occhi di tutti. L’implementazione della medicina sul territorio è un’altra misura abbastanza impopolare. Si dovrebbe richiedere ai neo-laureati maggiore flessibilità e disponibilità a spostarsi nello scegliere il proprio percorso post-laurea. Il concorso su base nazionale ha già di fatto agito in questa direzione, ma la distribuzione dei posti sul territorio sembra essere ancora troppo sbilanciata, privilegiando alcune aree a scapito di altre.
Il secondo passo sarebbe accorpare enti, ordini professionali e, non ultimi, i centri iper-specialistici in modo da alzare il livello di esperienza del singolo centro, migliorare la qualità della didattica, e contemporaneamente uniformare maggiormente lo standard italiano sul territorio nazionale.Infine, c’è bisogno di un cambio radicale di mentalità in merito alla didattica. L’Italia è ormai la Cenerentola d’Europa, rimasta ancorata a concezioni di formazione derelitte in cui reggere i ferri al primario è l’attività più formativa a cui si possa anelare. Salvo poi uscire dalla specializzazione ed essere catapultati nella realtà della pratica clinica in cui un professionista vero serve… e a volte non c’è. Da questo punto di vista, il sistema anglo-sassone in senso allargato (Regno Unito, Stati Uniti, ma anche Canada, India, Australia, Nuova Zelanda) è probabilmente il più completo a cui fare riferimento. Un sistema in cui tutti i medici, universitari o meno, hanno degli obblighi didattici da rispettare. Un programma di formazione specialistica ha il dovere etico di produrre radiologi, chirurghi e interventisti competenti e indipendenti. Professionisti che non abbiano problemi ad effettuare un bypass coronarico, una colectomia o un’angioplastica dal primo giorno della propria vita da specialista. Il neo-specialista italiano si ritrova invece insieme ad un esercito di colleghi suoi pari ad osservare il proprio primario eseguire le procedure al posto suo, sperando un giorno di prenderne il posto. A cosa serve un sistema verticistico che crei una pletora di assistenti col solo scopo di far lavorare un primario? I paesi di cui sopra hanno superato questo modello ormai da 30 anni e più. In un reparto medio lavora un pool di specialisti competenti (i consultant), ognuno dei quali con uno suo team composto, tipicamente, da uno specializzando (registrar nel Regno Unito, resident negli Stati Uniti) e da uno o più neo-laureati (junior doctor). Ad ogni procedura ad alta complessità il consultant ha l’obbligo di insegnare e di far fare al suo studente, nei limiti del suo livello di formazione e delle sue capacità. A fine specializzazione, il curriculum di un neo-specialista inglese è imparagonabile a quello di un italiano, vantando spesso un numero di procedure – eseguite autonomamente – dalle cinque alle sei volte maggiore.
Queste riforme sono ‘in progress’ da anni, ma stentano a decollare e incontrano molteplici resistenze. Si tratta di ottimizzare una serie di risorse e ridistribuirle in maniera più omogenea sul territorio nazionale. Pochi accolgono volentieri un programma del genere, ma si tratta di una delle tante riforme strutturali sempre annunciate ma mai veramente perseguite. Come in molti settori da riformare nell’ambito della vita pubblica italiana, servono meno retorica, pregiudizi ideologici e tornaconti politici. Il punto è che il vantaggio nel cambiare le cose sarà, prima di tutto, per l’utenza.
* Giulio Anichini MD, FEBNS, Specialista in Neurochirurgia, Research fellow all’Imperial College, Londra, con la collaborazione di Walter Mazzucco MD, PhD, MSc, Professore Aggregato di Igiene Generale ed Applicata, Università degli Studi di Palermo