RetroscenaO Renzi, o morte: ecco perché la Leopolda si prenderà il Pd o lo lascerà per sempre

La Leopolda ci mostra un Renzi che non ha nessuna voglia di tirarsi indietro. Culto della personalità, bordate ai nemici, e un’ipoteca per il dopo (probabile) disfatta europea

Claudio GIOVANNINI / AFP

La Leopolda numero nove, archiviata ieri, può essere piaciuta o meno, può aver appassionato molti e deluso tanti altri, può essere stata percepita come una grande novità o come la solita minestra riscaldata. Ma ha sicuramente un merito, quello di aver fugato ogni dubbio sul presente e sul futuro politico dell’unico motivo per cui questa manifestazione esiste e continuerà ad esistere: Matteo Renzi. Che infatti, nel discorso che chiude la tre giorni fiorentina, quello in cui attacca frontalmente il “governo dei cialtroni”, fissa già l’appuntamento per il prossimo anno, il 25 ottobre del 2019.

Un modo per dire: io ci sono e continuerò ad esserci. Gli indizi, d’altronde – già ampiamente trapelati prima della kermesse nella vecchia stazione di Firenze – sono troppi e troppo evidenti per non capire che l’ex segretario, ex premier, ex sindaco di Firenze, ex presidente della Provincia, ex rottamatore e ora “senatore semplice di Scandicci”, non abbia alcuna intenzione di farsi da parte e di mettersi a “giocare da mediano”, come comunicato qualche settimana fa in una delle sue tante ospitate televisive.

Il video di apertura della tre giorni – in pieno stile convention di Herbalife, con Renzi acclamato da una folla in estasi, sulle note di “Quelli che restano” di Elisa e Francesco De Gregori – aveva fugato ogni dubbio già dall’inizio. Il resto è stata la sublimazione del super-io. Intanto la presentazione della manovra alternativa, scritta con Pier Carlo Padoan. Alternativa a quella di Lega e Cinque Stelle, ma alternativa anche a quella “varata” pochi giorni prima da Maurizio Martina e dal responsabile economico, renziano in uscita, Tommaso Nannicini. Poi è stata la volta dello show nelle vesti di intervistatore, che Enrico Mentana ha descritto come una prova da sparring partner di Paolo Bonolis.

Con la personalizzazione abbiamo preso il 40%, con la spersonalizzazione il 18%


Matteo Renzi

Sempre nella giornata di sabato è arrivata la proposta di candidatura di Rula Jebreal alle elezioni europee con il Pd. Singolare che un “senatore semplice” si senta addosso la responsabilità di pensare a come redigere le liste elettorali. Durante il discorso di chiusura, poi, la frase che testimonia come Renzi faccia ancora fatica a pensare di avere a che fare con il disastro elettorale: «Con la personalizzazione abbiamo preso il 40%, con la spersonalizzazione il 18%». Come se gli elettori avessero percepito un suo presunto passo indietro in campagna elettorale e non avessero premiato il Pd per questo. E infine, come se tutto questo non bastasse, arriva il gran finale, su Facebook, a bocce ferme: “Inizia una nuova strada”, con tanto di lancio di comitati civici in tutta Italia. Non una novità, per il renzismo, che già in passato aveva provato, senza successo, a costruire una rete parallela al Pd sul territorio.

A chiarire il tutto è Piero De Luca, figlio del governatore della Campania, nome in ascesa nella galassia dell’ex premier: «Renzi è una figura imprescindibile per il Partito Democratico, ma spero che si arrivi presto ad una soluzione unitaria che rilanci in partito in vista degli appuntamenti elettorali della primavera». Parole che pesano come pietre e chiariscono cosa sarà del Pd nelle prossime settimane.

Prima certezza. Non ci sarà mai alcun candidato di area renziana in grado di evolvere dallo stesso Renzi. La tre giorni di Firenze ha messo in scena un culto della personalità senza precedenti nella storia del centrosinistra. Siamo a livelli salviniani, con il quale, infatti, secondo quanto riferisce una retroscenista ben informata come Maria Teresa Meli, il feeling è massimo. È immaginabile una Lega con Salvini a fare da portatore d’acqua? No. Ecco, secondo i suoi fan neppure Renzi potrà mai fare il portatore d’acqua. Con buona pace dell’autonomia e dell’autorevolezza di Marco Minniti, il cui impatto alla Leopolda è risultato trascurabile, per usare un eufemismo.

Non ci sarà mai alcun candidato di area renziana in grado di evolvere dallo stesso Renzi. La tre giorni di Firenze ha messo in scena un culto della personalità senza precedenti nella storia del centrosinistra

Ciò conduce dritti ad una seconda certezza. È impossibile pensare ad un’alternativa a Renzi fuori dal campo renziano senza che questo porti ad uno scontro e, potenzialmente, ad una separazione. Nicola Zingaretti non ha mai nascosto di essersi candidato anche per archiviare gli anni del renzismo. Ebbene, quel leader, e quel popolo a lui così devoto, non accetterebbero mai l’idea di essere in minoranza. E il “fuoco amico” tanto criticato da Renzi si rivolterebbe contro il nuovo segretario con effetto immediato. Anzi, il fuoco amico, se così si può definire, è già cominciato ancora prima dell’inizio della campagna congressuale.

E qui, entriamo nel campo dell’incertezza. La fotografia post-Leopolda del Pd, infatti, è quella di un partito ostaggio del suo ex leader. Il quale, nonostante la spinta dei suoi tifosi, non ha intenzione di rimettersi in gioco subito, ma di attendere una piena riabilitazione politica (un po’ come Berlusconi che ha atteso per anni quella giudiziaria). Nel frattempo, dietro questa poco credibile ricerca del candidato unitario, cominciata con l’iniziativa dei sindaci pro-Minniti orchestrata dal turborenziano Matteo Ricci, si nasconde il vero obiettivo di Renzi: rinviare il congresso, scavallare le europee e riproporsi come unico leader dopo l’ennesima disfatta. Una strategia che però, sembra fare acqua da tutte le parti, e rischia di trovare davvero troppi ostacoli sulla propria strada.

La Leopolda infatti, checché ne pensino i frequentatori più convinti, è diventata con gli anni una realtà parallela, una bolla. Lontana dal comune sentire del paese e, negli ultimi tempi, anche da quello del partito. Non è un caso che di big, quest’anno, se ne siano vista pochi o niente. Sono quelli che su Facebook il pasdaran Alessio De Giorgi (social media manager che negli ultimi tempi ha fatto parlare di sé più per le sue gaffe online che per le sue strategie) definisce i “leccaculo”. Ma sono anche, forse, il termometro di dove stia andando il partito.

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