La retromarciaOcchio Cinque Stelle: con il Tap e con la Tav vi giocate elettorato e identità

Con la questione del gasdotto pugliese (così come sulla Tav) il Movimento Cinque Stelle rischia di perdere il controllo della situazione. I suoi elettori ne hanno digerite tante. E ora si tocca uno dei punti forti del Movimento. Le proteste pugliesi sono solo un antipasto

L’ultima battaglia simbolica sulle grandi opere resta quella della Tav in Val di Susa: sulle altre il Movimento Cinque Stelle ha dovuto arrendersi alla perentorietà dei fatti. Non si può chiudere l’Ilva di Taranto per farne un parco giochi, seguendo la vecchia provocazione di Beppe Grillo. Non si può rifare il Ponte di Genova coi ristoranti e le piste da skate sopra, come pensava Danilo Toninelli. Non si può, soprattutto, fermare il Trans Adriatic Pipeline, cioè il gasdotto Tap, già quasi completo per due terzi, arrivato fino alle coste dell’Albania e prossimamente in allestimento nel tratto sottomarino fino a San Foca, Puglia.

Sul Tap cade uno dei capisaldi ideologici del Movimento e le animose proteste viste ieri nel Salento, con le bandiere e le foto dei parlamentari bruciati in piazza, sono probabilmente solo un antipasto. In tutta Italia i grillini hanno aggregato come calamite, per anni, comitati cittadini, di valle, di montagna, di quartiere, ostili a ogni forma di intervento sul territorio non solo per un’idea conservativa dell’ambientalismo ma anche per un’intima avversione alla modernità e ai collegamenti che, in fondo, sono il vero simbolo della globalizzazione, con i suoi vantaggi e i suoi difetti.

Sul Tap cade uno dei capisaldi ideologici del Movimento e le animose proteste viste ieri nel Salento, con le bandiere e le foto dei parlamentari bruciati in piazza, sono probabilmente solo un antipasto

In questo senso il Tap era davvero iconico. Progettato per motivi geopolitici – ridurre la dipendenza europea dalle forniture di gas russe – è un’opera privata che l’Italia ha definitivamente autorizzato nel 2014, durante il governo Renzi. Alcuni retroscenisti raccontano che il sì del premier Giuseppe Conte è legato a un personale intervento di Donald Trump, al quale il Tap piace moltissimo perché avvantaggia un Paese amico (l’Azerbaijan) e riduce lo strapotere di Mosca e Berlino sul gas. Secondo questa lettura il placet grillino al condotto sarebbe stato addirittura scambiato con l’appoggio dell’amministrazione Usa alla manovra economica e a interventi sulle agenzie di rating per ridurre i contraccolpi sui mercati. I grillini sono diventati davvero così furbi? Possibile. Ma è più probabile che si siano arresi perché disfare l’opera – così come spianare l’Ilva o progettare un ponte-luna park sopra il Polcevera – sia risultato davvero superiore alle loro forze.

Cavalcando la battaglia No-Tap il Movimento di Beppe Grillo ha avuto in Puglia un successo tra i più straordinari, un vero e proprio cappotto. 24 collegi su 24 alle elezioni del 4 marzo, quasi tutti voti sottratti al Pd, ed è ovvio che il partito adesso sia turbato dalla rivolta dei suoi dirigenti e militanti locali. Ma la questione è più larga. Se è vero che la vecchia politica è stata azzerata per un eccesso di realpolitik, per il vizio di anteporre le ragioni del potere e il risiko delle relazioni alle richieste dei cittadini, queste nuove classi dirigenti rischiano di appassire per il motivo contrario, l’esagerazione ideologica. «Siamo realisti, chiediamo l’impossibile» era uno slogan buono per le occupazioni universitarie e le provocazioni situazioniste, ma costruirci sopra un programma di governo espone a figuracce inevitabili.

Mentre l’attenzione di tutti era puntata sui dati economici il vero elemento di delusione per gli elettorati gialloverdi – ieri, per la prima volta, c’era un meno 2 per cento nei sondaggi sul governo – arriva da fattori fondativi, con le le idee

Si tratta di un punto critico che non riguarda solo San Foca, non solo il Tap. Mentre l’attenzione di tutti era puntata sui dati economici e sulla realizzazione delle relative promesse, il vero elemento di delusione per gli elettorati gialloverdi – ieri, per la prima volta, c’era un meno 2 per cento nei sondaggi sul governo – arriva da fattori fondativi che hanno più a che vedere con la cultura di riferimento, le idee, che con i calcoli di bilancio. Le grandi opere e il condono per i Cinque Stelle, l’autonomia del Veneto e della Lombardia per i leghisti, frustrati dal rinvio della firma che avrebbe dato corso alle richieste del referendum dello scorso anno. Se gli elettorati capiscono la prudenza nel gestire a tappe la correzione della Fornero, il reddito di cittadinanza, la flat tax – tutti sanno che i soldi sono pochi – sono assai meno tolleranti davanti a questioni che sembrano collegate solo alla volontà politica dell’esecutivo.

Accettare che in politica esista l’impossibile per motivi diversi dalla contabilità – e cioè equilibri generali, intese, dati di sistema invalicabili – è lo sforzo che oggi si richiede al popolo del cambiamento. Vedremo se sarà capace di farlo, se riuscirà ad accettare che i suoi incendiari leader diventino pompieri degli stessi roghi che hanno alimentato con fervore in passato, o se prevarrà il laconico epitaffio di tutti gli esperimenti politici azzoppati, già sentito ieri a San Foca: «alla fine sono tutti uguali».