Provare disgusto è umano. Lo si può fare per tutte le cose e, a ben vedere, anche soltanto per delle parole. Alcuni nutrono antipatie idiosincratiche per vocaboli inoffensivi (che si spiegano solo dopo anni di contorte sedute dallo psicologo), altri invece aderiscono a forme di repulsione comuni che colpiscono alcune parole precise.
In inglese, per esempio, la parola più odiata è “moist”. Il motivo, molto semplice, è il significato: “umido”. Ma non è quell’umidità piacevole (ad esempio, le onde sul corpo durante il solleone) bensì quella, molto meno invitante, che ristagna. “Moist” non piace a nessuno: sono stati scritti articoli contro “moist”, pagine Facebook per chiederne l’abolizione, perfino sondaggi nazionali. Ma lei rimane lì, imperterrita, come l’umidità più schifosa.
Ma non è l’unica. Gli anglosassoni dimostrano di odiare tante parole, che pure sono di uso comune e si mostrano sganciate da significati repellenti. Ad esempio “literally”, che ormai non si sopporta più a causa del continuo abuso che ne viene fatto (“perché dire literally quando in realtà non è literal?”). O “slacks”, cioè pantaloni, che – non si capisce come mai – è stato messo al bando per una settimana dal New Yorker, dopo che i lettori si sono lamentati su Twitter.
E ancora: non vanno bene tutti i neologismi invecchiati presto, come “bromance”, o “bae”, o “FOMO”. Bandito anche “ointment”, cioè unguento, perché è difficile pronunciarlo in modo elegante senza far venire in mente a tutti il verso del maiale (in inglese: “oink, oink”) e, se possibile, tutte quelle parole piene di diminutivi usate con i bambini (bye-bye, daddy, jammies).
Parlare è un’azione umana e, come tutte le azioni umane, non è meccanica. Agisce nel mondo (o viene agìta? Chissà) anche assecondando sentimenti irrazionali, simpatie personali e antichi, inestirpabili odi di classe. E qui si intende, come è ovvio, classe scolastica.