Il comico è «un modo minore della vita (“minore” inteso in senso musicale)». Opera ai confini della quotidianità seria, non ha cittadinanza nel momento delle decisioni fondamentali. Eppure, è fondamentale per la convivenza. Secondo l’antropologo dell’Università di Torino Adriano Favole, ospite alla terza edizione della rassegna livornese “Il senso del ridicolo”, organizzata da Stefano Bartezzaghi, ridere insieme «è una forma di connivenza». Anche qui, parola che va intesa «in senso positivo, come avviene in francese». Significa, alla latina, «“chiudere gli occhi insieme”, cioè affidarsi agli altri: si creano legami di fiducia reciproca». Così la risata aiuta a cementare un rapporto, ma al tempo stesso esclude chi non è parte di un gruppo sociale.
E allora la domanda viene: come si fa a ridere insieme quando si appartiene a culture diverse?
«Chiariamoci subito. Ridere non crea la comunità», spiega Favole a Linkiesta. Il gruppo sociale, al contrario, si costruisce «intorno a un’appartenenza seria: fatta di riti, mitologie, religioni». Il senso sociale del ridicolo è altrove, cioè nella vita di tutti i giorni. Qui l’appartenenza, «quella non seria» viene, più che creata, mantenuta «attraverso la battuta, lo scherzo condiviso». Traccia confini, alimenta legami. E, in più, «con la sua funzione eccentrica – il ridicolo è una sorta di trascendenza, perché fa sì che, nell’attimo in cui si ride, ognuno si osservi dal di fuori – fa immaginare nuove possibilità».
Non è chiaro. «Pensiamo ai riti di iniziazione: noi li consideriamo il rituale che sancisce il pieno ingresso nella società, o comunque la cerimonia che regola di passaggio da uno stato a un altro». In altre società, invece, ricoprono una funzione più ampia: «Sono le occasioni in cui si rivela che le credenze della comunità sono solo finzioni». Avviene in quei contesti ristretti, segreti e appartati, che si dica, ad esempio, «che “gli dèi e i mostri siamo noi, li creiamo noi, li facciamo muovere e vivere noi”. Da quel momento, ciò che prima era accettato come vero, non lo è più. O, in un certo senso, non lo è più come prima. Anche la risata ha questo potere: con la sua capacità di svelare la falsità di certe convenzioni (e farne immaginare di nuove), «appartiene alla stessa categoria».
A vicenda, ognuno deve accettare di apparire goffo e imbranato agli occhi di un’altra persona
«Del resto, di cosa ridono gli amerindiani? Dei due loro simboli di potere principali: lo sciamano e il giaguaro. Il primo, conoscitore dei segreti della natura, è l’uomo in grado attraverso i voli del suo spirito di entrare in contatto con gli dèi, di spostarsi per distanze chilometriche nel suo sonno, di trasformarsi in un altro animale. Il giaguaro è, invece, la potenza della natura, il pericolo (per gli altri) e la forza per definizione. Ecco», spiega, «nelle loro leggende più dissacranti i protagonisti sono giaguari sfortunati, che cadono dagli alberi, pigri e paurosi. E gli sciamani, invece, usano il loro potere di volare per andare a prostitute, o per ingannare le persone. In altri casi, invece, non sono nemmeno in grado di trovare la strada del villaggio». Insomma, possiedono «una loro autoironia, con cui immaginano situazioni nuove» ma che, per forza «si fonda su un patrimonio comune e riconosciuto, ogni volta, di conoscenze e tradizioni». Noi, per capirsi, non ridiamo delle battute sullo sciamano e sul giaguaro perché non le capiamo.
È questo, spiega, «che rende difficile ridere con persone di culture diverse». Sono situazioni in cui «serve uno sforzo reciproco. A vicenda, ognuno deve accettare di apparire goffo e imbranato agli occhi di un’altra persona». Non è semplice, «perché le identità sono vischiose: trattengono, legano e tendono a far evitare questi confronti».
E questo, senza dubbio, rende più difficile ridere insieme allo straniero. Nel momento in cui si cerca di comprendere qualcuno di un’altra cultura, «serve il coraggio di togliersi di dosso quella conchiglia che è la nostra identità. Deve essere una fatica, però, reciproca». Ed è per questo, dice, «che sono contro l’accoglienza agli immigrati». Sono parole forti «e non vorrei essere frainteso: sia chiaro, io sono contrario a questa idea patetica, stucchevole di accoglienza per cui noi-dobbiamo-essere-quelli-buoni». Per essere più precisi, «sono contrario a qualsiasi approccio li infantilizzi, li tenga da parte e, alla fine, li isoli».
Al contrario, «serve avere un progetto comune, che li riguardi e che permetta di considerarli in modo serio: da adulti e tra adulti». Ci sono persone che si lamentano perché li vedono tutto il giorno a non fare niente. «Hanno ragione: è sbagliato. Certo, loro lo denunciano in modo razzista, ma questo non rende giusta la situazione». Il fatto è che «gli stranieri non sono bambini. Non li si può lasciare nell’inattività, non è in primo luogo giusto nei loro confronti». Il progetto «dovrà essere ampio e comune», coinvolgente e profondo. Più o meno, sarà come cercare di ridere insieme: accettando di essere messi in discussione e di risultare, all’improvviso, goffi agli occhi di qualcun altro.