Diciamolo onestamente, non ci ha mai realmente creduto nessuno. Alla faccenda che esistesse l’erotismo, il nudo artistico, quelle menate lì. Non ci ha realmente creduto nessuno ma ci è andato bene di raccontarcelo, per quello strano e inspiegabile motivo per cui vedere un paio di tette, un culo, volendo anche una figa, continua a colpire la nostra fantasia, nonostante, per dirla parafrasando una nota canzone di Luca Carboni che parlava del mare “e pensare che in fondo è solo carne”.
Diciamolo onestamente, non ci ha mai realmente creduto nessuno, ma questa faccenda dell’erotismo, lì contrapposta alla meccanica unta e umorale della pornografia, ha fatto forse più danni di quanto avremmo potuti prevedere, anche lasciando da parte i corpi e il sesso.
Perché da un certo punto in poi, diciamo da dopo che un Willy Pasini o Francesco Alberoni qualsiasi ci parlarono della pornografia dei sentimenti, oggi direbbero la spettacolarizzazione del dolore, e in tutti i casi si parla di qualcosa che ruoti e viva prevalentemente se non unicamente dentro la scatola della televisione, da quel momento in poi c’è stato il solito furbo che ha ben pensato di declinare il tutto in un qualcosa di indefinito, certo più alto, ma non troppo, che potremmo chiamare l‘erotismo del sentimento. Non perché abbia a che fare col desiderio o la passione, intendiamoci, ma per traslato, perché prenda quella che è la pornografia e ne faccia una versione apparentemente light, più intellettuale, o quantomeno meno ginnastica e incastri.
Proviamo a vederla facendo un passettino indietro. Tanti anni fa, non ricordo più neanche esattamente quando (in realtà era il 2000, Youtube non mente), c’è stata questa nota pubblicità della Telecom che aveva un ancora giovanissimo e bellissimo Leonardo Di Caprio per protagonista. C’era lui in mezzo alla natura, in un prato, tra insetti e fili d’erba, la barbetta rada e incolta. Stava lì a non fare un cazzo quando gli arriva un messaggio su quello che dovrebbe essere un Blackberry con pennetta ottica, all’epoca gli smartphone non c’erano. Il messagio gli chiede quando tornerà indietro, sottintendendo a noi spettatori che lui, Di Caprio, sia lì in mezzo a quel campo e a tutti quegli insetti perché se n’è andato, si è sconnesso, forse è scappato. Di Caprio legge ma non risponde. Mette da parte il suo cellulare e si stende nuovamente nel prato, mentre lo schermo lascia spazio alla scritta “la tecnologia è importante, ma anche tutto il resto”. Tutto bellissimo. Il protagonista. La location. Il messaggio. Tutto bellissimo per spingere la gente a diventare, o meglio a ritornare a essere clienti della Telecom. Una pubblicità, appunto. Una pubblicità che rovescia la propria mission, vendere abbonamenti a Telecom, spingendo, apparentemente, la gente a sconnettersi, a stare scollegati.
Tutto molto bello. Più recentemente, dopo quelli che sembrano essere intere ere geologiche, fatte di smartphone, appunto, e di social sempre più presenti, di condivisioni e di Like, è arrivata una nuova pubblicità che ha entusiasmato noi spettatori, noi consumatori, quella dei telefoni Huawei. L’avete vista tutti, non sarebbe necessario probabilmente raccontarla, non fosse che qui si prova a fare un ragionamento sullo storytelling, parola che, diciamocelo, tempo un paio di settimane e ci avrà definitivamente rotto il cazzo, quindi qualche parola mi toccherà spenderla pure sulla trama, tanto per dimostrare come il modo di raccontare una storia sia sempre fondamentale, quanto la forma sia sostanza.
Parlare di sentimenti e solo di sentimenti ci mette al sicuro dai rischi del politicamente scorretto, o anche solo del racconto realista. Siamo nel campo del teorico, del poetico in assenza di poesia. Un modo elegante di infilare la testa dentro la sabbia
C’è questo ragazzetto che si aggira per un bosco coi suoi amici in bici. Anche qui ci sono insetti, e natura. Lui resta un po’ indietro e a un certo punto si ferma, attirato non si sa bene come da un rumore. Scende dalla bici e lì, dietro un albero, vede uno strano esserino, non si capisce se animale o alieno. Lo fotografa immediatamente col suo smartphone Huawei e condivide la foto tramite messaggio. La foto fa il giro del mondo, l’esserino, Gnu Gnu è il nome che gli viene affibiato a causa dei versi che fa, diventa popolarissimo. Ci sono app che riproducono le sue orecchie sui social, ci sono magliette, ci sono pupazzi, videogiochi. Di tutto. Il ragazzo diventa famosissimo, Gnu Gnu diventa famosissimo. Finché non arriva qualcosa di molto simile all’esercito che lo cattura, tutti abbiamo visto E.T., sappiamo come l’uomo sia di sua natura poco accogliente, altro che Lega e i migranti. Gnu Gnu viene portato in un parco tematico, tipo zoo, dove tutti si fanno selfie con lui, chiuso dentro una gabbia. Gnu Gnu è palesemente tristissimo, lì dentro. Torniamo al momento subito dopo lo scatto della foto, nel bosco. Il ragazzo si è immaginato tutto e decide, maturo, di cancellare la foto e lasciare Gnu Gnu libero di vivere la sua vita nel bosco, lontano dai social e dal resto. Il futuro è nelle tue mani, dice il claim.
Tutto molto bello, anche qui. A differenza dello spot di Di Caprio, molto più bello, perché la gente, vedendolo, l’ha condiviso, dando vita a una sorta di paradosso degno di quelli di H.G. Wells. Tutti condividono uno spot di uno smartphone che in qualche modo stigmatizza la condivisione, che avviene proprio attraverso lo strumento che lo spot promuove, uno smartphone la cui peculiarità è quella di fare bene le foto. Figata.
Figata un cazzo. Perché questo spot, come all’epoca quello della Telecom di Di Caprio, ci propone una versione alta di una scopata selvaggia, tutta stantuffate e gesti spettacolari. Pornografia spacciata per erotismo, appunto. Perché noi guardiamo a questi spot, così come ci capita di leggere certi libri di un Luca Bianchini, per fare un nome, o di ascoltare i dischi di un qualsiasi cantante italiano vivente, e ci viene detto che i sentimenti sono qualcosa di alto, da inseguire, da porre al centro della nostra vita. Qualcosa di un po’ meno centrato delle campagne per la decostruzione degli stereotipi di bellezza messa in campo dalla Dove, tanto per rimanere nel campo dell’advertising, perché stavolta il messaggio è a solo scopo propedeutico a dirci che l’azienda che viene sponsorizzata è nobile, senza che in realtà lo sia veramente.In questa epoca preapocalittica in cui ci troviamo a transitare nel pianeta Terra è ormai assodato che l’anima vince sul corpo, in barba all’Illuminismo. Niente ci sembra più naturale che raccontare o farci raccontare i sentimenti
Non c’è un intento pedagogico in questi spot, non c’è un tentativo intellettuale di modificare una natura che ormai sembra inimmodificabile. C’è solo il tentativo di fare vedere un paio di tette, un culo, volendo anche una figa, spacciandola per arte. Qualcosa di più simile al primo calendario della Barale su GQ che a una foto di Helmut Newton, anche se pure lì toccherebbe aprire dibattito. Niente a che vedere, per dire, con quanto invece ha messo in campo una come Lady Gaga, che per rovesciare gli stereotipi imperanti nello show business si è messa al centro di una operazione assai più complessa, usando il suo corpo per creare un avatar cyborg, femminile, con la femminilità abbondantemente svelata, maschile, ricorderete tutti le voci che la volevano in realtà uomo, fatto che troverà la sua cristallizzazione nel video di Telephone, ma anche transgender, con tutto quell’apparato di innesti che per anni hanno abitato i suoi video e le sue foto promozionali. Qualcosa che ha preso gli stereotipi e li ha piegati, azzerandoli, facendo di Lady Gaga, non di Stefani Germanotta, un simbolo di diversità virtuosa, universale.
Perché in questa epoca preapocalittica in cui ci troviamo a transitare nel pianeta Terra è ormai assodato che l’anima vince sul corpo, in barba all’Illuminismo. Niente ci sembra più naturale che raccontare o farci raccontare i sentimenti, che si parli in maniera bassa, come in certi programmi tv (da Temptation Island a Uomini e Donne), giusto mascherando un certo distacco nella neutralità di voce della padrona di casa Maria De Filippi, o in maniera apparentemente più alta, come avviene, per dire, nella narrazione degli spot su citati o di un programma come X Factor, che riveste di coolness esattamente gli stessi meccanismi fatti di lacrime e dolore, di riscatto e gioia (si veda come è stata alzata, bruciata e fatta sparire Rita Bellanza, un anno fa).
Lino Banfi che spia la Fenech che fa la doccia lasciando la tenda scoperta, da una parte, la foto di una donna legata con nodi stretti di Araki, l’altra. Senza star qui a tirare in ballo cazzi e orifizi vari. Stessa solfa, lo sappiamo bene tutti. Solo raccontata con linguaggi diversi per pubblici diversi, che vogliono sentirsi dire cose diverse, volendo anche rassicuranti. La negazione della fisicità attuata da questa campagna prosentimenti non fa che contribuire a lasciare che gli stereotipi sui corpi vivano una vita serena, cristallizzata. Se del resto non si raccontano più i corpi ovvio che i corpi restino quelli che sono e sono sempre stati. Qualcosa che nega la bruttezza, l’invecchiamento, ma anche solo l’idea dell’incedere del tempo e del non rientrare perfettamente in dei canoni che gli stessi spot hanno sempre negato. Parlare di sentimenti e solo di sentimenti ci mette al sicuro dai rischi del politicamente scorretto, o anche solo del racconto realista. Siamo nel campo del teorico, del poetico in assenza di poesia. Un modo elegante di infilare la testa dentro la sabbia. La negazione del basilare principio che spesso chi tiene li mondo in mano sta per farsi una sega di fronte a un video di Valentina Nappi in compagnia di un negro.