Non conosco il portoghese, non conosco il Brasile e non avevo mai messo piede in una favela. Così devo ammettere che quello che riporto in questo breve reportage è, in qualche modo, tutto falso. Le storie, le stesse conversazioni che ho avuto, sono ricche di buchi neri, d’incomprensioni o di fraintendimenti e non solo linguistici. L’unico dato oggettivo è che sono “fisicamente” qui e con una prospettiva che a me sembra interessante: una condivisione totale. La camera dove dormo non ha finestre, non ha illuminazione e se piove si bagna tutto. La casa non ha porte interne e nessuna sicurezza nei confronti del mondo esterno: basta un cacciavite per entrarci. Ma tutte le case che visito hanno lo stesso problema. Il rapporto con i ladri è fatto di scoraggiamenti e non di strumenti. Vedi cancellate affidate a catenacci da rompere con le mani. Oppure catene messe in bella vista, ma senza lucchetti. Dissuadere il potenziale intruso con un codice comportamentale che ha, come ogni codice che si rispetti, un unico presupposto: la certezza della pena. Chi sgarra in favela ha due strade: pagare o scappare. E questo riguarda, oltre alla proprietà privata, anche al resto.
L’abitazione tipica della favela è una costruzione a due piani. L’esterno è raramente intonacato e il cemento mal distribuito lascia intravedere buchi tra una mattonella e l’altra. L’interno è pieno di muffe dovute alle infiltrazioni d’acqua ed è raro vedere un impianto elettrico decente. Le costruzioni sorgono una addosso all’altra, senza seguire nessuna norma urbanistica ne di estetica ne di sicurezza. Vedi case costruite a strapiombo su un terreno scosceso e hai la percezione che possano crollare da un momento all’altro. Ogni stagione delle piogge migliaia di case diventano inagibili e, purtroppo, qualcuna collassa. Si fanno terrazzi, che poi con la nascita di un figlio diventano camere, che a loro volta vengono terrazzate e poi trasformate in altre camere. Come dei funghi, dalla notte alla mattina, ti ritrovi il paesaggio cambiato e il tutto senza nessuna autorizzazione ne, tantomeno, coordinamento tecnico. Praticamente sono delle capanne dove al legno è sostituito il mattone. Anche l’interno è concepito così: è come vivere in campeggio. La privacy è sconosciuta persino nel bagno. Gli scarichi vengono fatti confluire alla carlona nella fogna, spesso a cielo aperto, con un conseguente crollo di ogni decenza igienica. I topi sono la prima conseguenza. In questo scenario il ritmo delle giornate è dettato da scadenze naturali.
Vedi case costruite a strapiombo su un terreno scosceso e hai la percezione che possano crollare da un momento all’altro. Ogni stagione delle piogge migliaia di case diventano inagibili e, purtroppo, qualcuna collassa. Si fanno terrazzi, che poi con la nascita di un figlio diventano camere, che a loro volta vengono terrazzate e poi trasformate in altre camere
La luce e il caldo impongono tutto, o quasi: internet, ad esempio, modifica il fuso orario di intere famiglie. Chi ha in favela parenti all’estero trascorre la giornata collegato virtualmente all’emigrato. Conversazioni e video chiamate chilometriche nelle quali si assiste praticamente in diretta alla vita degli altri. Un “piccolo fratello” molto struggente e molto diverso da come possiamo immaginarlo. Così se la madre prepara cucina baiana, manda la ripresa del tutto al figlio a Berlino, il quale le invia la foto del bar dove sta bevendo birra. Queste comunicazioni sono improntate ad una ingenuità assoluta e vengono condivise in gruppi familiari talmente allargati da perdere ogni legame di parentela. E, anche in questo caso, ogni privacy. Così uno riceve decine di informazioni sulle attività dei migranti e trascorre la giornata immedesimandosi in realtà che non ha mai visitato. La madre del mio amico parla di Piazzale Loreto, nostro quartiere milanese, come se ci vivesse, come se frequentasse gli amici del figlio che ha visto solo su facebook.
Anche i bambini vivono questa “doppia” vita aggrappati al cellulare e alternano, confondendoli, videogiochi a videochiamate. Una virtualità molto diversa da quella dei bambini italiani, perché incide maggiormente sulla loro affettività. Una cosa è chattare con l’amico che il giorno dopo s’incontra a scuola, un’altra è farlo con la madre che non si vede da cinque anni. Io mi sveglio prestissimo e dopo aver preso il caffè, raggiungo casa di un’amica che ha il wi-fi. Anche io, oltre ad assistere alla vita altrui in Europa, cerco di condividere la mia qui con chi amo. Ma per me è molto più difficile e non mi basta mandare la foto della pizza che ho fatto il giorno precedente per colmare il vuoto che la mia assenza dall’Italia ha generato. Così alcuni miei legami vuoi per fragilità, vuoi per altro, sono messi a dura prova da questa esperienza ed è una cosa che qui nessuno capisce.
“Perché la tua donna è nervosa con te?”, “Perché tuo figlio non risponde?”. Difficilissimo rispondere a queste domande, proprio perché vengono da chi è “diverso” da me. E’ questa diversità, oltre ai miei limiti di narratore e alla mia ignoranza linguistica, che creano quello slittamento di realtà che trasforma questo reportage in una menzogna. Tranne durante il periodo di carnevale la mia vita si svolge nella favela e ne segue orari e abitudini. La mia attrezzatura, questo notebook e la macchina fotografica, sono le uniche varianti che mi sono concesso rispetto agli altri.
Mangio come loro e quando mangiano loro, assisto alle loro conversazioni, partecipo all’ incessante e inspiegabile transumanza tra una casa e l’altra che inizia dalle prime ore dell’alba, per terminare dopo la sigla di chiusura della telenovela delle 21. La televisione nelle case è sempre accesa, ma anche il loro modo di seguirla è diverso. Da noi se c’è una partita ed uno è interessato al calcio la guarda. Qui è come un sottofondo visivo: una specie di ospite che non prende il sopravvento sugli altri ospiti. Si guarda un po’ la tv, poi si distoglie l’attenzione per conversare, poi si fa una cosa e, alla fine, si torna a guardare la tv.
Le telenovele, proprio per la loro semplicità narrativa, consentono di essere seguite pur non seguendole. Si presta attenzione ad un bacio, ad una scena violenta, per poi abbandonare il piccolo schermo e fare altro. Io, invece, mi concentro molto sulle telenovele per cercare di apprendere un poco di portoghese. Con la scusa del cane cammino molte ore al giorno, visitando quartieri limitrofi, oppure circumnavigando questo. Cerco il famoso “bandolo della matassa” per tentare di raccontare questa esperienza, senza farmi prendere alla gola dai luoghi comuni.
Anche come fotografo ho questa sensazione sgradevole: da una parte è molto semplice fare una buona foto, dall’altra è molto probabile che sia un’ immagine scontata, già vista. E’ un fenomeno che io chiamo “esoticità”, per cui certi soggetti brillano talmente di luce propria che confondono chi vuole in qualche modo narrarli. Una spirale nella quale si pensa di star facendo un buon lavoro per poi tornare a casa e accorgersi che, non solo è stato già fatto, ma non è neanche “benfatto”. Così giro a vuoto è, il più delle volte, mi concentro su me stesso e sulle piccole e grandi ulcere che ho lasciato a casa.
Trattatino di Microeconomia
Cito da un volantino di un noto supermercato di Salvador:
1 Kg di pollo intero (3,45 reais – meno di 1 euro)
1 Kg di carne bovina (12 reais – circa 3 euro)
1 Kg di riso (2 reais – circa 0,50 euro)Un chilo di fagioli, di frutta fresca o di verdura costa in media 2 reais circa 0,50 euro, così come una passata di pomodoro si trova in offerta ad 1 real e con un euro se ne possono comprare quattro. Per non parlare di benzina e gasolio che costano meno della meta che in Italia. Il salario minimo è di circa 1000 reais, ma un laureato o un lavoratore con mansioni particolari arriva a guadagnare oltre 5000 reais. E, facendo riferimento ad una cesta basica di prodotti primari e al costo medio di un affitto è un cifra, in proporzione, ben più alta di quella che si percepisce in Italia. Accesso al credito, sia per l’acquisto di beni di consumo, sia per mutui immobiliari mi sembra, a prima vista, più semplice che da noi.
Il passaggio tra la favela e la città modifica il costo di alcune cose (ad esempio l’affitto), ma non modifica sostanzialmente il resto. La sanità è regolata dal cosiddetto “piano di salute”: una sorta di polizza assicurativa, il cui prezzo varia molto a seconda dell’età e del tipo di prestazioni coperte. Una casa per una famiglia tipo (madre, padre, 2 figli) in favela costa tra i 300 e i 400 reais al mese, mentre l’acquisto è tra i 20.000 e i 30.000 reais (parliamo, in ogni caso, di meno di 10.000 euro). Una mia amica vedova e con tre figli con un salario da donna delle pulizie di circa 1200 reais campa molto dignitosamente. Non so, sinceramente, se questa donna in Italia potrebbe condurre lo stesso tenore di vita. La sua casa è grande: una cucina enorme, una sala, 2 camere da letto e un bel terrazzo. Paga 300 reais. Con circa 300 reais acquista prodotti di prima necessità e con il resto si permette e permette ai suoi figli anche qualche sfizio. Un vicino che lavora come montatore di mobili arriva a percepire 2000 reais che è una cifra di tutto rispetto è, sempre in rapporto al tenore di vita, quasi doppia di quella che un ragazzo con mansioni analoghe guadagna in Italia. La povertà, forse perché proporzionalmente molto più evidente della nostra, non viene vista o vissuta come malattia.
Si può, senza incorrere in sanzioni amministrative o penali, aprire una piccola attività commerciale o di servizio e questo senza nessuna autorizzazione o onere fiscale. Fino a circa 30000 reais annui non si pagano imposte. E’ possibile occuparsi dello smaltimento delle innumerevoli lattine di birra abbandonate per strada e ricavarne un piccolo guadagno. Molte donne prestano servizi come manicure-pedicure, estetista e parrucchiera per strada o presso domicilio. Altre cucinano e poi girano per rivendere le proprie prelibatezze. Altre si limitano ad appendere fuori casa un cartello e a vendere, indisturbate dal fisco e dalla ASL, gelati, birra fredda, torte e quant’altro. In questo scenario l’idea di morire letteralmente di fame è molto meno probabile che da noi. In questi cinque mesi mi è raramente capitato di vedere barboni: forse tre o quattro, in tutto. A Milano ne vedo la stessa quantità in un’ora. Non sto facendo una pericolosa esaltazione del Terzo Mondo, ma mi limito a riportare alcuni dati, frutto della mia osservazione. Un pensionato italiano anche con la minima, ma con buona salute, a Salvador è ricco. Questo discorso è, solo in parte, giustificato dal cambio vantaggioso ed da altre questioni di macroeconomia che non è il caso di affrontare. Gli eventi, ad esempio, come il carnevale rappresentano un’enorme volano per l’economia reale, ma anche per il sommerso. Da noi, se prendiamo in considerazione EXPO di Milano, non è stata la stessa cosa. I guadagni sono tutti stati fagocitati dai grandi gruppi e nessun poveraccio ne ha tratto vantaggi, compreso chi ha lavorato con mansioni umili nei padiglioni percependo salari da “terzo Mondo”, appunto. Il carnevale, invece, da la possibilità a chiunque abbia una moto o una macchina di improvvisarsi autista. Ogni dieci metri, non esagero, c’è qualcuno che vende bibite e ogni venti qualcuno che vende cibo, sigarette sfuse, souvenir e altro. Uno investe 5 reais per l’acquisto di un pacchetto da 20 sigarette e le rivende a 1 real cadauna. Con un guadagno proporzionalmente enorme: 5 investiti, 15 guadagnati. In quest’ottica e con un Primo Mondo sostanzialmente cambiato nel dare accoglienza ed opportunità, partire per l’Europa è una follia. Allora perché si continua a farlo?
Rebecca ha venti anni è fa la prostituta. Vuole andare in Italia a svolgere la sua professione. Cerco di scoraggiarla facendole questo ragionamento. “Qui una casa piccola, in un buon quartiere, costa 600 reais. Puoi affittarla. Viverci e comportarti come le tue colleghe in Europa: reclusione totale e attesa del cliente. Non investi migliaia di euro per partire, non corri rischi e non ti allontani dai tuoi affetti. Ti chiudi uno o due anni in casa e fai gli stessi soldi che faresti in Italia.” Lei, con molto candore, molto più di quello che si può immaginare mi risponde: “Non ci riuscirei. Poi…prima cosa…faccio questa cosa per non farmela buttare in faccia da qualcuno. Domani o dopodomani io farò altro e nessuno deve capire che ho fatto prima. Poi non ho abitudine qui a lavorare. Prendo casa e poi me ne sto in favela con i miei amici. Un giorno è festa. Un giorno non ne ho voglia. Un giorno non mi chiama nessuno. No: vado in Italia, chiudo gli occhi, e faccio questo. Sistemo tutto e torno. E’ vero quello che dici, mica sono stupida io, ho amiche la che mi raccontano che per giorni non lavorano. Però lavorano. Sono chiuse in casa a lavorare. Qui non puoi farlo…non so spiegare il perché…puoi farlo ma non riesci a farlo.”
Trattatino di etica del lavoro
Dei ragazzi e ragazzi che ho conosciuto in favela pochi hanno un ciclo di studi completo, pochi parlano altre lingue e quasi nessuno ha delle specificità tali da renderlo appetibile nel nostro mercato del lavoro. In tutto il Brasile, dati statistici, circa diciassette milioni di ragazzi e ragazze vivono in totale povertà. Ma “la terza via” è come una non via, qualcosa che diventa reale e proficua nel sogno o nella criminalità. La stessa percezione di una società multirazziale e scevra da razzismi è molto forte. Eppure , sotto l’aspetto economico, lo è molto meno.
Ho visitato un mio amico ricoverato in ospedale e i medici che ho intravisto erano tutti bianchi. Non è un elemento di valore statistico, fatto sta che anche nelle televisioni baiane, telenovela e telegiornali compresi, c’è una maggioranza schiacciante di bianchi. Eppure in Favela o per strada vedi quasi solo neri. Ad una società realmente aperta e tollerante, si contrappone una economia che evidentemente è ancora chiusa. Dove le opportunità formative sono, in qualche modo, appannaggio dei bianchi. Anche all’interno di famiglie con bianchi e neri (è una cosa da queste parti molto comune), vedi che i destini professionali dei bianchi sono diversi da quelli dei neri. Il bianco ingegnere e il nero muratore, anche se fratelli. La bianca insegnante, la nera ambulante. Quest’ aspetto non è solo dovuto a barriere reali o a discriminazioni, c’è sempre il fattore culturale: la percezione che abbiamo di noi stessi, attraverso gli occhi degli altri. Cosa si aspetta la società e la famiglia da noi? Quali traguardi devo raggiungere per essere accettato? Tutti aspetti che sono volano dell’emancipazione dalla povertà e che in favela sono come azzoppati da un’atavica pigrizia.
Da un’incapacità progettuale che si tramanda da generazioni anche nelle piccole cose. Vedi bambini tentare di fare i compiti ed essere trattati dalla madre come inopportuni. “Non vedi che il tavolo serve a me?…Non vedi che c’è la telenovela?” Vedi altre madri sostituirsi letteralmente al figlio e compilare i compiti mentre il figlio gioca a pallone. Inutile far notare che i compiti deve farli il piccolo. “Se non ne ha voglia…che devo fare?”. In quest’ottica l’etica del lavoro viene sostituita da un’etica di appartenenza, in un anti-calvinismo radicale e difficilmente scalfibile. Sono nato a Napoli, capitale storica dell’anti-calvinismo e certe cose sono nel mio DNA, quanto in quello degli amici di favela che interrogo.
Quello che però mi colpisce qui è la semplicità con la quale si vive questo status. Noi dobbiamo continuamente mimetizzarci e non possiamo riconoscere con sincerità le nostre contraddizioni. A me, per esempio, piace molto avere la casa pulita, ma non mi piace affatto lavarla. Anche al fratello del mio amico. Ma lui si vanta pubblicamente di non far nulla a casa, quasi ostenta la sua pigrizia per farsi coccolare dalla mamma o dalla fidanzata di turno. Io, invece, ho subito ricatti emotivi e bronci millenari dalle mie ex mogli. Questa semplicità si allarga a macchia d’olio, fino a consentire una sopravvivenza che è, prima emotiva, poi economica. La polizia ha atteggiamenti molto aggressivi, mai con ambulanti. La televisione è molto indulgente con chi si arrangia, da noi è esattamente il contrario. La burocrazia non entra in favela. Così uno può mettere sul terrazzo trenta galline e inventarsi una sopravvivenza, senza suscitare vergogne o scandali. Provate a immaginare cosa succederebbe in Italia se un vostro vicino in crisi si improvvisi allevatore di galline urbano e spacciatore di uova di contrabbando?Criminalità e Bolsonaro
Ieri è stato ucciso in una favela non distante da dove vivo un maestro di capoeira, la cui unica colpa era di aver affrontato verbalmente un elettore di Bolsonaro. La sua argomentazione era che l’assassino, in quanto nero, non poteva sostenere un candidato razzista. Ragionamento banale, ma gli è costato la vita. Il Brasile è spezzato in tante anime politiche e i circa 35 partiti ne sono espressione lampante. Chiunque vincerà al secondo turno troverà un parlamento a dir poco ostile. Gli slogan, sempre più violenti, da ambo le parti generano un clima di paura. A Luis Anselmo, per fortuna, il dibattito politico è diverso. Una parte di favela è schierata con il partito dei chissenefrega, l’altra sostiene compatta Haddad.
Rambo è un ragazzone di trent’anni che, oltre a fumare maconha, taglia barba e capelli sull’uscio della sua casa. Una piccola bottega artigianale al centro del vicolo, dove si alternano pochi e spericolati clienti: con il suo perenne sguardo traslucido, io non mi farei mai passare un rasoio sulla gola. Per grazia altri hanno più coraggio di me. Il suo pensiero politico non è banale. “Se si giustifica la corruzione finiamo a vivere, sopravvivere, senza dignità. Ci danno il contentino per andare avanti. Ma vedi: qui non c’è luce nella strada, fogna, mio figlio va a scuola solo qualche ora al giorno e nessuno di noi ha un futuro. Parole belle e poi niente. Si muore ammazzati da una pallottola vagante e, molte volte, non si capisce nemmeno da chi è partita, polizia o trafficanti. Io non ho paura di Bolsonaro e sai una cosa: un po’ di pulizia fa bene al Paese.” Il partito del non voto, del voto bianco-nullo continua a crescere. Molti, come Rambo, hanno perso ogni fiducia nel essere “rappresentati” e nessuno dei 35 partiti rispecchia i loro sogni ne, tanto meno, i bisogni.
Effettivamente guardando la campagna elettorale del primo turno in televisione, ho notato candidati perlopiù attempati, bianchi e maschi e con slogan politici molto distanti dal sentire della fame. Un candidato al senato, ad esempio, sosteneva in Tv che il nuovo presidente avrebbe dovuto nominare, durante il suo mandato, alcuni giudici costituzionali e che la sua “missione” consisteva nell’ impegnarsi a far eleggere uomini imparziali. Incarico sappiamo certamente importante, ma quanto questo obiettivo può essere condiviso da Rambo? Davanti alla porta di casa, proprio dove svolge la sua attività di barbiere, ha costruito una piccola trincea: è per combattere i topi che, dalla fogna a cielo aperto adiacente, tentano di invadere la casa. La lotta al ratto è uno slogan condivisibile in favela, ma pochi candidati hanno affrontato questo tema. Tutti hanno preferito usare termini vaghi come: sicurezza, salute, scuola, lavoro. Tanto che a me, ignorante in fatti brasiliani, mi è sembrato che ci fosse un unico partito alle elezioni e che questo partito unico fosse stato all’opposizione negli ultimi anni.
Solo lo sfondo dal quale si staccava la faccia linda del politico mi indicava l’aria di appartenenza del candidato. Praticamente riconoscevo il partito dalla location. Pochi hanno spiegato con quali risorse intendono realizzare questi progetti. Nessun candidato, tranne Haddad, ha ricordato che per fare queste cose un presidente ha bisogno di soldi, che questi soldi provengono dalle tasse e che, se eletto, avrebbe certamente tassato i redditi medio-alti. Gli altri promettevano più salute, più scuola, più di tutto e di più…e meno tasse. Il vice di Bolsonaro, un generale in pensione, si è coerentemente dichiarato più volte a favore delle peggiori e retrive intenzioni del suo capo: taglio della tredicesima, salario inferiore per le donne, soppressione della bolsa familia… salvo poi essere puntualmente smentito il giorno dopo dal suo capo. Un giochino ripetuto talmente tante volte da non poter essere casuale.