Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. La rosa antica esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi. Ha concluso così Il Nome della Rosa, il suo primo e più celebre romanzo storico, Umberto Eco. Perché lo scrittore forse aveva ragione: la caducità della percezione del reale e della memoria non ci consente di cogliere davvero l’essenza delle cose né di distinguere il particolare dal tutto. Danziamo avvolti in mostruose sineddoche in cui la parte, facilmente e atrocemente, diventa il tutto.Possediamo solo i nomi delle cose, le conosciamo in superficie e la nostra mente umana non riesce ad assaporarne la vera essenza. Ci troviamo immersi in un universo complesso, caotico, spesso indecifrabile. È difficile orientarsi, i limiti umani a volte ci paralizzano, rivedere la luce è una chimera.
Come riuscirci? Scommettendo su noi stessi. Solo così possiamo vincere la paura. Perché il coraggio è abitudine e, servendoci dell’audacia che tanto spaventa, riusciremo a liberarci dalla maschera che ci opprime, ci nasconde, ci limita. Viviamo celati dietro a questa maschera. Ne abbiamo una per la famiglia, una per il lavoro, una per la società e finisce che quando siamo da soli restiamo nessuno. Cercare una nuova visione ci spinge a superare noi stessi. A trovare un senso ai nostri giorni. Perché poi l’uomo alla fine è questo: un’eterna lotta contro i propri limiti.
Schopenhauer aveva una visione aberrante dell’essere umano. Il filosofo tedesco sosteneva che l’uomo vive soltanto per perseguire un obiettivo e che, una volta raggiunto, ha subito bisogno di prefiggersene un altro, altrimenti é destinato a spegnersi. Ma l’uomo non è solo questo, per fortuna. Ha bisogno di guide e le cerca ovunque: nei genitori, nei padri putativi, negli amici, nei libri e nella religione. I dubbi macerano la sua vita. Capita agli uomini più saggi. Non hanno pensieri forti, ma deboli. Il protagonista de Il nome della Rosa, il francescano Guglielmo da Baskerville interpretato nel riadattamento del romanzo sul grande schermo da Sean Connery, è un ex inquisitore alla ricerca della sua anima. La storia si dipana in un monastero benedettino nell’Italia del nord che viene scosso da misteriosi assassinii. La crisi di valori e di fede della gigantesca abbazia viene affrontata dal monaco, uno Sherlock Holmes medievale che mastica debolezze umane e fragilità perché proprio lui ne è vittima e per questo sa dove colpire e come incassare. Guglielmo ha il compito di svelare il mistero di morti seriali che sembrano volute da una mano divina, non umana. Guglielmo è come noi. Preda del disorientamento, perduto, non capito, sottovalutato. Soltanto l’uso della ragione può illuminare la sua via, aiutarlo ad affrontare le prove più difficili. Tutto questo può essere rafforzato dalla fede in qualcuno o in qualcosa. In Dio? Dargli un nome non conta. L’importante è non cedere al buio e ascoltare il daimon, diceva Socrate, la voce interiore che guida l’uomo alla felicità, la eudaimonia.
Continua a leggere su Centodieci