NON NECESSARIAMENTE FATALE
A cura di Massimiliano Coccia e Marco Cubeddu
Massimiliano Coccia
Il fallimento non è fatale
Luca Barra
Il fallimento nella
televisione, il fallimento della televisione
Valentina Farinaccio
Quando non se ne può più
Marco Canestrari e Nicola Biondo
Il fallimento alla guida dello Stato:
l’eredità di Gianroberto Casaleggio
Ivan Ferrari
Procreazione
Stefano Serretta
La sindrome del Principe Carlo
Marco Cubeddu
Fuga da Cubeddugrad
LETTURE
Luca Mastrantonio
Emulazioni licenziose.
Lolite, milf e altre pratiche sessuali finzionali
Giulia Ferrando
Nel momento del taglio, non cessa la corsa
Fabrizio Coscia
Philippe Forest, il narratore della morte
Simone Arcagni
Io ne ho visto cose…
RICORSI
Vittorio Sgarbi
Viaggio fra le rovine
SCRITTURE
Luca Giordano
Erika
Viola Ventura
Maicol
Fabio Guarnaccia
Il tuo silenzio sarà ascoltato
Matteo B. Bianchi
Gruppo di supporto per reduci di Bjork
Michele Orti Manara
Match point
Noemi De Lisi
Carogna
Emiliano Ereddia
San Giovanni e la luna
Tiziana Rinaldi Castro
Una distanza irriducibile
Leonardo Malaguti
La Passione di Kreg
Lorenzo Fabris
Un uomo molto annoiato
ANTEPRIME
Alcide Pierantozzi
L’inconveniente di essere amati
Ottavio Cappellani
La Sicilia spiegata agli eschimesi
INIZI
Francesco Romeo
Non pensare all’elefante
MEMORIE
Livio Milanesio
Straniero Nel Bosco
RIBALTE
Maniaci d’Amore
Petronia
VOCI
Michele Vaccari
Almanacco del 28 settembre
POESIE
Denver But
Estratto da Nuovi Argomenti numero 83
F. è cambiata dall’ultimo controllo. Ha uno sguardo allarmato che rimbalza per la stanza senza riuscire a posarsi, porta i capelli raccolti in una pinza di plastica, proprio lei che sembrava sempre appena uscita dal parrucchiere. Poche battute e percepisco la sua distanza. Non c’è nulla, lo vedo bene, che io possa dire per rasserenarla. L’unica cosa in grado di salvarla adesso, o di dannarla, si chiama ecografia. Solo così potrà rassicurarsi, solo attraverso le immagini reali, oggettive, del cuore del bambino che batte, solo vedendo con i propri occhi i suoi piccoli movimenti avrà le prove di cui ha bisogno per ricominciare a respirare. Nel frattempo, nell’attesa che io mi decida, continuerà a star seduta fingendo d’ascoltarmi e fremendo dentro senza trovare il coraggio di chiedere che cosa stiamo aspettando ancora per iniziare questo benedetto esame. È attraverso la sua inquietudine che capisco che sto effettivamente prendendo tempo. Perché ho timore di quel che potrò trovare. F. è affetta da una sindrome non così rara a dispetto del suo nome astruso: la Sindrome da Anticorpi Antifosfolipidi. Nulla di terribile apparentemente, nessun malessere, niente che impedisca una vita normale. Ma nel suo sangue sta nascosta una piccola vulnerabilità, una specie di iperefficienza, un meccanismo della coagulazione che tende ad esagerare e a causare un maggior rischio di trombosi. E di aborti spontanei.
Ripasso le volte in cui abbiamo affrontato insieme l’evidenza che la gravidanza si era fermata. Quattro, forse cinque volte. Due di sicuro prima di iniziare gli accertamenti e scoprire la sindrome e altre due almeno, quando credevamo di tenere in pugno la situazione e di aver trovato anche il rimedio insieme alla causa. Scoprire dolorosamente che la nostra prevenzione non ci dava la garanzia di parare il colpo ci ha gettato nella prostrazione e ha dato ad ogni nuovo tentativo il sapore di un salto nel vuoto o di una roulette russa. Ricordo bene il giorno in cui abbiamo sperimentato per la prima volta la nostra impotenza. Per strada infuriava l’estate e noi stavamo avvolti nella bambagia dell’aria condizionata. C., il timido marito, portava un abito color carta da zucchero che ne denunciava la condizione di transfuga dal lavoro, evaso prima del tempo per fare la conoscenza del figlio. Si era scherzato sui lividi che costellavano le gambe e la pancia della moglie, frutto delle iniezioni di eparina a basso peso molecolare, l’elisir anticoagulante a cui avevamo affidato le nostre speranze. In breve il silenzio era diventato il quarto ospite dell’ambulatorio, tangibile, ineludibile e alla fine rivelatore, mano a mano che nessuno lo interrompeva. Presto il mio viso e non il monitor dell’ecografo era diventato l’oggetto degli sguardi e l’espressione che andava assumendo doveva essersi a poco a poco fatta inequivocabile visto che non c’era stato più bisogno di parole. F. non aveva versato una lacrima: si era limitata a dire che se lo aspettava ma il tono e la sua espressione facevano più male di un pianto dirotto. La vita è una storia che porta in sé il proprio fallimento. Inciampa, sbaglia strada, si inganna, crede e si ricrede mentre scivola verso l’ultimo di tutti i fallimenti, la trasformazione nel proprio contrario, la negazione di sé stessa. Ma la vita che fallisce nel divenire vita, l’accendino che scintilla senza nemmeno accendersi, la semenza interrata ed innaffiata che non riesce a gettare fuori dalla terra il proprio virgulto ha un sapore ancora più desolante. È ciò che ricorda più da vicino l’inutilità, la solitudine, il buio senza la speranza. E così eccoci oggi ancora una volta qui, ad avvicinarci all’ecografo con la lentezza di chi si appresta ad un rito misterico da cui può venire la salvezza o la catastrofe, un passaggio terribile e inevitabile al contempo.
F. si dispone. Stavolta è venuta da sola, ufficialmente il marito non poteva lasciare il lavoro ma entrambi sappiamo che temeva di non poter reggere l’ennesima delusione. Accendo la macchina tentando qualche goffa battuta, F. chiude gli occhi. Ed eccolo ancora una volta, immobile sul fondo del mio schermo, il piccolo relitto. Il bambino naufragato prima di diventare un bambino. «Ci riproveremo» dicono gli occhi lucidi di F. ai miei occhi lucidi che l’ascoltano. E sembra quasi che mi voglia consolare. È lungo un pomeriggio di racconti, di voci. A volte, col passare delle ore, hai come uno smarrimento e ti sembra di non saper più chi sei. Sarebbe utile a quel punto entrare da quella porta, sedere al posto del paziente e potersi ascoltare. «Non sono mai stato capace di concepire la mia morte, dottore. Ho imparato, scritto, guardato, amato tutto quello che ho amato, scritto, guardato, imparato, solo perché durasse. Niente di quello che ho progettato era pensato per finire. Se finisse perderebbe il suo senso, capisce dottore? Diventerebbe come un aereo sott’acqua, una barzelletta raccontata in una lingua sconosciuta. Se avessi saputo che si trattava di faccende temporanee avrei fatto tutto diversamente, mi creda. E ora mi dicono che la prossima tappa è un luogo inconcepibile dove non ci sarà più posto per me e io non so come mi devo comportare. All’inizio ho provato a metterci una pezza facendo finta di non aver sentito ma da qualche tempo non ci riesco più. E se mi convinco davvero che prima o poi tutto sarà perduto, tutto finisce per essere già perduto, caro dottore mio. Tutto già ora.
Che medicina potrebbe esserci per questo paziente che non è mai venuto a disturbarla? Cosa prescrivono gli ultimi protocolli per un dottore che vorrebbe consolare gli altri di qualcosa a cui lui per primo non è capace di rassegnarsi?» Il consulto è interrotto dalla signora D. che si scusa del lieve ritardo. Io e la signora ci conosciamo bene. Negli ultimi quattro anni siamo passati dalla prescrizione di qualche timida analisi per approfondire le ragioni di una gravidanza che stentava ad arrivare fino ad una vera diagnosi di infertilità. Oggi circa il quindici per cento delle coppie nel mondo è affetto da questo problema (“patologia” la dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ma nessuna di loro ha mai trovato consolazione in questo dato. In più per un alto numero di queste, più o meno un sesto, non è possibile nemmeno risalire ad una causa che spieghi perché è stata loro negata dalla sorte una procreazione naturale. La signora D. e il marito fanno parte di questo gruppo. Si potrebbe pensare che una volta saputa la diagnosi, questo non faccia molta differenza. Che cosa potrebbe cambiare sapere quale parte del delicato meccanismo non funziona come dovrebbe? Individuare in che punto preciso si è inceppata la silenziosa catena di eventi che si ripete imperterrita milioni di volte al giorno per tutti i viventi, uomini e animali, piante, batteri e miceti, ognuno con la piccola prole accanto, mobile o immobile, muta o chiassosa ma fatta della stessa sostanza della madre e del padre? Invece il mistero delle cause è una ferita che aggrava la ferita più grande: la natura rifiuta a certuni uno dei suoi grandi doni e nemmeno è dato sapere perché. Sa di cattiveria per chi la subisce, sa di punizione. «Mi sento tanto in colpa» mi ha confessato qualche tempo fa la signora D. asciugandosi gli occhi. «Non ha nessuna ragione di sentirsi in colpa» le ho sciorinato meccanicamente. Ma io sapevo bene cosa intendeva dire. Quando il dio ti punisce così duramente ci deve essere qualcosa che hai fatto per meritarlo, per offenderlo, qualcosa di sbagliato in te. Oggi la signora è venuta a dirmi che, dopo i tentativi falliti per avere un figlio con l’aiuto delle tecniche artificiali e vista la sua età, sta pensando di ricorrere alla fecondazione eterologa. Ha letto un po’ su internet e vorrebbe sapere di più. Ha capito che si tratterebbe di accettare gli ovociti di una giovane donatrice (le si storce un poco la bocca mentre lo dice) e unirli nel segreto di un laboratorio al seme del marito. È venuta sola perché ha appena iniziato a valutare questa strada. A lui non ha ancora detto niente. Rispondo a tutte le domande con diligenza.
Sì, viene scelta una donatrice ragionevolmente somigliante al fenotipo della madre non biologica. Sì, la donatrice resta assolutamente anonima. No, nessuno verrà a saperlo se voi non vorrete comunicarlo. No, per i bambini è diverso, gli psicologi concordano sul fatto che sia meglio dir loro la verità ad un certo punto. No, certo che non è obbligatorio, ma è consigliabile, ci sono persone che aiutano a farlo nel modo migliore. Cosa intende per vista da fuori? Una volta che è iniziata è una gravidanza normale, a tutti gli effetti. Sulle percentuali di successo il centro a cui vi rivolgerete sarà più preciso, diciamo che siamo intorno al trenta per cento. Quando le domande sono esaurite la signora si alza, mi ringrazia e mi saluta, evitando il mio sguardo. Poi, poco prima di varcare la porta, ha un ripensamento. Scusandosi cento volte mi dice che sa bene che non dovrebbe nemmeno dirlo ma egualmente mi supplica di non far cenno della nostra conversazione alla suocera, anch’essa mia paziente. Fingo un po’ di indignazione e la rassicuro. Viso dopo viso trascorrono altri scampoli, ancora stralci di vita, finché il chiacchiericcio in sala d’aspetto si dirada e l’affievolirsi della luce alla finestra mi annuncia che è ormai vicino il momento del silenzio. So già che starò qui seduto a respirarlo a lungo, come ogni sera, e che come ogni sera verrò assalito dal solito dubbio. Saranno state pronunciate con qualche effetto tutte le parole che si sono pronunciate in questa stanza? Avranno veramente raggiunto chi ascolta o si saranno limitate a spostare l’aria echeggiando come illusioni per poi tornare all’orecchio di chi le ha prodotte con l’inganno di aver consegnato il messaggio che era stato loro affidato? Non fallisce forse sempre la parola? Un colpo di tosse sommesso mi giunge all’improvviso dalla soglia e mi dice che è non ancora ora di starsene qui a far bilanci. Non conosco la giovane donna che mi guarda chiedendo con gli occhi il permesso di entrare. Senza pensarci contravvengo alla regola che mi sono dato tanto tempo fa, quella di non porre mai domande dirette ad una paziente nei primi minuti di colloquio: senza neanche attendere che apra bocca le chiedo come posso aiutarla. Per fortuna la nuova entrata non mostra di aver fatto caso ai miei modi da usciere. Per provare a rimediare le faccio segno di accomodarsi con tutta le gentilezza che mi rimane in fondo alle tasche. «Sono in gravidanza» mi dice dopo essersi seduta. Capisco bene che non ha finito e taccio. «Non è una buona notizia per me» aggiunge. Mi dispongo all’ascolto senza commentare. «Credevo fosse l’uomo giusto e non lo era. All’inizio sembrava… niente, tanto è inutile.» Mi alzo, strappo un grosso pezzo di carta dal rotolo che uso per le cose di studio e glielo porgo. «È brutto ma pulito» dico accarezzandole una spalla e accennando un sorriso. La donna si soffia il naso e si tampona gli occhi cercando di non sbavare il trucco. «Gliel’ho comunicato tutta orgogliosa un mese fa. Neanche stessi annunciandogli chissà che, come fossi lì a fargli un gran regalo, una sorpresa. Povera stupida. Non è stato contento nemmeno un secondo. Mi ha subito chiesto di ripensarci. Non lo sento da quel giorno».
Quando eseguo l’ecografia rivolgo lo schermo verso di me ma è una cautela inutile, lei ha già voltato il viso verso il muro. La sonda sussulta per i singhiozzi che dal suo corpo si trasmettono alla mia mano come un bradisismo dolente e inesorabile. Sbrighiamo le pratiche per l’interruzione. Cerco con tutte le mie forze di farle sentire che sono qui per aiutarla, che in tutto il suo abbandono io le sarò alleato. Quando è il momento di congedarci arriva l’ultima domanda (la pronuncia senza smettere di gettare oggetti nella borsa alla rinfusa, come fosse un sacco della pattumiera: chiavi, fazzoletti, i miei certificati, soldi accartocciati). «Se mai fosse, e non sarà, ma se invece dovesse succedere che… – il mento le si raggrinza di nuovo per un istante – che io incontri la persona giusta, potrò ancora avere un figlio dopo aver fatto quello che sto per fare?» Trovare la persona della vita. Trovare la persona con cui fare un figlio. Un successo riuscirci, un lutto non esserne mai stati capaci. Ma che vuol dire persona della vita? Quante possibili persone della vita ci sono per ognuno di noi a questo mondo? Il fato ci deposita su un pezzo di pianeta, in una città, in un quartiere e noi, guarda la combinazione, novanta volte su cento finiamo per trovare la persona giusta proprio in un raggio geografico non troppo distante da questo epicentro. La cosa è sospetta. Temo che siamo di bocca buona, va là. Molto più di quanto ci faccia piacere ammettere. Temo che, al netto dei rituali della specie (la stagione degli amori, i corteggiamenti, l’innamoramento) finiamo tutti per fare il fuoco con la legna che troviamo.
E così ubbidiamo al bisogno preciso di costruirci una biografia coerente con le aspettative che ci hanno educati ad avere nella società in cui ci troviamo a vivere. Eppure ogni tanto anche questo meccanismo tendenzialmente vincente si guasta. Si resta seduti senza essere invitati per un giro di ballo, poi due, poi tre e finisce che si resta con la scopa in mano. Allora presi dal panico ci si getta sulla prima persona che capita, dimenticando quel minimo di prudenza che pure la strategia richiederebbe, si prende una facciata, poi un’altra e tutto si mette ad andare storto, come una specie di maledizione. Dà un senso penosissimo di sconfitta, un’afflizione profonda e continua vedersi invecchiare senza aver trovato il compagno o la compagna col quale realizzare il nostro schema di mammiferi sociali. Quando prendo la parola per rispondere alla domanda mi accorgo di rivolgermi alla scriminatura dei suoi capelli ramati mentre il viso se ne sta dentro la borsa in attesa. «Sono sicuro che non avrà problemi ad avere bambini, quando li vorrà» le garantisco. Per qualche secondo resta così, come valutando il senso di quel che le ho appena detto, la borsa sformata sulle ginocchia unite, gli occhi che fissano qualcosa alle mie spalle. Poi si alza e in meno di un attimo è un vestito a fiori rossi che si allontana senza rumore lungo il corridoio.
Note dell’autore: Dopo la conclusione degli eventi narrati in questo breve scritto, nel mondo nulla è cambiato. L’aborto spontaneo continua a verificarsi nel 10-15% delle gravidanze e non ha smesso di essere impossibile da prevenire nella quasi totalità dei casi. Molti lavori scientifici condotti su campioni di donne in paesi diversi dimostrano che poco meno della metà di coloro che vivono un aborto spontaneo si sente responsabile dell’accaduto. Il 13 marzo 2018 è stata liberata a El Salvador, dopo quindici anni di carcere, Maira Figueroa condannata a trent’anni per un aborto spontaneo interpretato come volontario dal giudice senza alcuna prova. In questo momento altre ventisei donne si trovano attualmente in un carcere del paese per aver avuto un aborto spontaneo. L’infertilità di coppia non ha smesso di riguardare il 15% circa delle coppie nel mondo, (un milione e mezzo solo in Italia), più o meno come ha sempre fatto negli ultimi secoli. Anche se alcune delle serie di dati demografici più complete a nostra disposizione, come quella dei registri parrocchiali francesi tra ‘600 e ‘800, sembrano indicarci tassi di infertilità più bassi nel passato (intorno al 5%), il dato ritorna sovrapponibile a quello attuale se lo si aggiusta per età: il 5% diventa più del 10% dopo i trentacinque anni della donna e il 25% dopo i quaranta. L’apparente aumento dell’infertilità sembrerebbe quindi star tutto nel fatto che le donne curiosamente si sono messe a cercar figli più tardi nonostante tutto nella società attuale venga loro incontro per rendere possibili scelte diverse. Più della metà delle coppie che sperimenta difficoltà a generare si trova ad affrontare una crisi emotiva che mette profondamente in discussione il loro rapporto. La Relazione del Ministro della Salute sull’attuazione della legge 194/1978 per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza è stata trasmessa al parlamento il 29 dicembre 2017. I dati relativi alle cittadine italiane (le donne straniere al momento hanno tassi più alti di ricorso all’aborto) evidenziano un trend in costante discesa negli ultimi trentacinque anni con una riduzione del 74,7% rispetto ai dati del 1982. In Italia circa il 70% dei ginecologi è obiettore con punte dell’88% e 97% in Basilicata e Molise.