Bastone e carota“L’animale che mi porto dentro” è una magnifica canzone di Battiato, e anche uno scialbo libretto di Francesco Piccolo

Un libro troncato e uno elogiato alla settimana. La confessione da maschio pentito di Francesco Piccolo è una scialba supercazzola borghese. Valgono molto di più di diari di Samuel Pepys, la canzone di Battiato, i galli di Vitaliano Brancati

Il bastone. Caso mai non lo sappiate. Francesco Piccolo da piccolo aveva i brufoli, tanti (“C’erano brufoli veri e propri; c’erano cicatrici di brufoli – perché erano brufoli consumati, andati a male, premuti fino a far uscire prima il pus poi il sangue poi una materia trasparente e poi più nulla; c’erano brufoli scorticati distrattamente, oppure c’erano brufoli vivi, freschi, con del pus giallo visibile…”), da ragazzo aveva le emorroidi (“Andavo in bagno e fuoriuscivano queste due palline infiammate e restavano fuori per un po’”) e il cazzo non lo chiama cazzo e neanche minchia o pisello o pene. Lo chiama ‘pirellino’. Al ‘pirellino’ – che a me fa venire in mente il Pirellone, piuttosto – Francesco Piccolo, quando ce l’aveva piccolo, è stato operato, circonciso a quel che è dato supporre. Quando il ‘pirellino’ diventa adulto, Piccolo lo chiama cazzo, ma la ‘fica’ sempre fica è. Quando Piccolo si sente in forma – quasi sempre, si desume, dacché ha vinto lo Strega – dice che si sente ‘stocazzo’. Ad ogni modo, Piccolo ha un animale dentro, che lo tormenta, che ha tentato di reprimere, ma non riesce. Di certo, narrativamente, scrivere di sesso gli viene male (“Nuda aveva un corpo più bello di quanto lo avessi immaginato vedendola sul campo. Le tette erano davvero indimenticabili, e mentre scopavamo in modo facile, non teso come succede la prima volta, ho sentito una specie di euforia”: beh, a uno scrittore chiederemmo la grazia di un aggettivo più articolato di indimenticabili per descrivere due tette “davvero indimenticabili”). E poi, a chi importa se Piccolo era bravo a giocare a pallacanestro – e piuttosto manesco – e gli piaceva la compagna di tennis dalle tette “indimenticabili”? La biografia adolescenziale di Piccolo non tocca gli universali, non va oltre il quartiere dei fatti suoi, è piena di eventi dimenticabili, è un diario delle polluzioni notturne, nostalgiche.

Insomma, in un romanzo in cui si finge Philip Roth – autore statunitense destinato a essere ferinamente ridimensionato nei prossimi vent’anni, citato a pagina 154, 155 e 223 – che è come se noi sottodotati ci mettessimo a giocare a chi scopa meglio con Rocco Siffredi, Piccolo c’informa che gli uomini hanno il cazzo, che chi ha il cazzo tendenzialmente lo mette in una fica e che per un uomo con il cazzo, normodotato o sottodotato che sia, insomma, ogni lasciata è persa, l’erezione è il centro intellettuale del mondo (“La sicurezza, l’umore, il carattere, la simpatia, la capacità di controllo, hanno un rapporto diretto con il fatto che l’erezione appaia subito, quasi subito, insomma presto”), svegliati, testa di cazzo. Potremmo cavarcela dicendo che il libro è una pisciata e che è stato scritto col cazzo, per restare in tema, e che l’uomo medio di sinistra – annichilito dal mito di Edipo – sta ancora lì a farsi le seghe mentali, a reprimere i brutali istinti – oltre ai brufoli –, uomo di mondo e non di bosco. Il fatto è che questo libro di Piccolo, pieno di parentesi pretesche da toccarsi le palle (“La frustrazione e il dolore non sono, come appaiono, o come si è tentati di dire, una giustificazione della bestialità. Sono, più precisamente e più sinceramente, il mezzo che trova la brutalità per palesarsi in modo più esplosivo e senza sensi di colpa, perché si dice a sé stessi e agli altri: posso, posso farlo, ho sofferto”), di approfondimenti che paiono cazzuti ma son solo delle indigeste supercazzole (le pagine su Malizia ad esempio o quelle sul panopticon, pp.174 e seguenti, dove sbuca pure Sorvegliare e punire di Foucault, che fantasia), e di battute da happy hour in loft (“da quando abbiamo visto Harvey Keitel in Lezioni di piano crediamo che avere la pancia sia erotico”), di claustrofobica ovvietà, fa un po’ incazzare. “Non ho potuto evitare che il nucleo del maschio si conservasse intatto, e apparisse ancora e sempre, tutte le volte, atteso o inaspettato”, scrive Piccolo per cui, probabilmente, un essere dotato di minchia è, a prescindere, un bruto violentatore, un anarca della pornolatria. Se un uomo desidera una donna, con ardore feroce e nitidezza d’incanto (“Ma dentro di me, sempre, sia che io lo voglia sia che non lo voglia, sempre, lavora un pensiero che sta sotto tutti questi: me la scoperei, come sarà nuda, però che culo, però che tette, sembra desiderosa, sembra rigida, chissà se le piaccio…”), che male c’è? Questo non è il male, è la norma, è normale. Ciò che dovrebbe esaltare un grande scrittore, piuttosto, è l’anormalità, cioè riconoscere che il cazzo ha un cervello. Sono le volte che hai soprasseduto al sentimento e al sentire per la furia di sodomizzare una minorenne premendogli il bel visino contro il muro; sono le volte in cui hai dosato la doratura delle parole per convogliare la tizia nell’eccitazione del tradire; sono le volte in cui hai giocato a sedurre più femmine, amiche intime della moglie, per il gusto di coltivare la dissipazione sull’argine del caos (e riconoscere che per certe amazzoni il cazzo vale più di una consolidata amicizia); le volte in cui hai assistito alla crisi isterica di una con l’indifferenza di un anatomista, prendendo appunti, utili, semmai, a galvanizzare il prossimo romanzo. Sono i gesti di deliberata cattiveria a eccitare, l’erezione è consecutiva al dolore arrecato al prossimo e alla vertigine adiacente del perdono – non si scopa mai così bene come dopo aver ridotto una donna al pianto e averle concesso, poi, l’anatema della minchia. In questo – negli aspetti lordati, luridi di cinismo, invero comuni, dell’amore, Piccolo non penetra. Non potrebbe. Ci vorrebbe un Dostoevskij, d’altronde, e Piccolo è soltanto il borghese piccolo piccolo – mica il Divin Marchese – della narrativa odierna. Non entro nel merito ‘formale’ del libro: la canzone di Franco Battiato a cui il romanzo, un po’ vigliaccamente, rimanda, è assai più significativa.

Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro, Einaudi 2018, pp.240, euro 19,50

La carota. Poiché il verbo è carne, la letteratura nasce per dire il sesso, la letteratura è sessuale e sessomane. Per questo, quando si tratta di scriverlo, il sesso, fuor di metafora (“l’Oasi Sprangata”, “la Sorgente Turata/ la Fonte Sigillata”, del Cantico dei Cantici, qui secondo Guido Ceronetti) e di sberleffo (gli spermatici epigrammi di Marziale, pieni di troie e di licenze scopatorie), si scade nel grottesco, d’altronde, la nudità è eccitante al chiaroscuro del tradimento, del proibito, del perverso, alla luce del sole un corpo è quello che è, una goffaggine eretta, che non provoca erezioni. Al mio amico Bruno Giurato, che ama guardare dal buco della serratura, piacciono i diari di Samuel Pepys, gran politico londinese del XVII secolo che era molto più smaliziato di un Premio Strega del secolo XXI, si analizzava dalla psiche all’ano con anatomico brio. Per gioco sono andato a vedere cosa combinava quel porco di Pepys il giorno del mio compleanno, 350 anni fa: “Mattina, moglie potentemente irritata a causa della mia menzogna, che ha reso inquieta la notte e subdoli i sogni… dice che è turbata a causa del mio rapporto con Jane… così ho lavorato, sono stato in chiesa, sono tornato a pranzo, e l’ho scoperta in uno stato ancora peggiore, si è chiusa in camera tutto il giorno, finché, forzando la porta, l’ho vista a terra, che piangeva. Non voleva sentire spiegazioni, mi ha detto che sono uno sciocco, un uomo lontano dalla verità, e che non si sarebbe concessa, quella sera. Io l’ho fatta parlare, le ho dato soddisfazione, le ho sussurrato qualcosa, con l’intimità di due amici, e infine… siamo stati a letto insieme per un po’…”. Secondo me – da sonora testa di – il sesso si fa bene in Occidente ma è narrato meglio in Oriente: i libri di Jun’ichiro Tanizaki – basta il racconto Il tatuaggio, di micidiale sottigliezza, una sevizia per l’immaginazione – sono dei miracoli formali, mentre, dall’altro lato culturale del mondo, l’autobiografia di Isaac B. Singer, Ricerca e perdizione, odorosa di sesso buono, di biblica e bulimica mania sessuale, è imprescindibile. D’altra parte, Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati e Divorzio all’italiana di Pietro Germi dimostrano una visione della sessualità più avveniristica e all’avanguardia di quella propugnata da Francesco Piccolo, perché speculare di sesso significa, sempre, parlare di ‘forma’, della forma verbale che adempie il corpo. Qualche anno fa fui sedotto dalle silenziose perversioni di Franz Kafka – leggere i suoi Diari è una necessità carnale – e dalla sessomania conclamata di Ingmar Bergman. Miscelai i caratteri. Ne venne fuori un libro, lordo di sesso, in cui ipotizzavo che Ingmar Bergman scrivesse la biografia sessuale di Kafka. In una scena, le amanti di Kafka – poche, ma particolarmente eccitanti – in una specie di baccanale, si scopano a vicenda con il calco del membro di Franz. In una scena precedente, Kafka si masturba con una macchina che gli fucila le cosce di aghi. In un’altra ama una, micidiale, che si montare da un molosso. Dissero che era troppo – che ero malato. Macché. Solo scardinando il corpo si fa spazio a Dio.

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