Il bastone… e infine il “personaggio”, con sorriso disinvolto, divorò lo scrittore. Paolo Cognetti è un fenomeno che va studiato per capire come funziona il sistema editoriale odierno e stanarne le strategie.
Prima di vincere il Premio Strega con Le otto montagne, Cognetti, più che alla montagna – trattata marginalmente – era interessato a New York, su cui ha scritto un paio di guide, e alla letteratura statunitense, imitata in libri piuttosto modesti (Manuale per ragazze di successo e Sofia si veste sempre di nero, ad esempio).
Dopo lo Strega la storia di Cognetti, autore normodotato, è cambiata: il personaggio – giovane esperto di montagna con la barba – ha divorato lo scrittore. Badate, sempre, ai particolari. Ad esempio, alla nota biografica dell’ultimo libro di Cognetti, Senza mai arrivare in cima, questa: “Paolo Cognetti da anni si divide tra la città e una baita a duemila metri”. Buon per lui, tutta salute: ma che ca**o me ne frega dove vive uno scrittore, a me importano i suoi scritti! Può vivere “a duemila metri” sopra o sotto il livello del mare, in un sottomarino giallo, l’importante è che scriva dei capolavori. Immaginatevi la didascalia che cinge la vita di Thomas Mann: alterna le sue giornate tra lo studio a Lubecca e una scampagnata in un sanatorio svizzero: durante il sonnellino pomeridiano gli appare in sogno Faust. Oppure quella di James Joyce: pur nato a Dublino, non è raro vederlo passeggiare a Parigi, indossa gli occhiali e quando capita per Trieste offre lezioni di inglese al signor Italo Svevo. Dovremmo farne uno sport olimpionico: le biografie più strambe degli scrittori più grandi.
Ecco, dicevo, vedete?, Cognetti come scrittore – uno che scrive libri – non esiste più, è stato divorato dal personaggio che abita ogni tanto in baita, e ogni tanto, come nell’ultimo libro, fa un “viaggio in Himalaya”. Di questo viaggio, in fondo, c’è poco da dire perché non è stato scritto da uno scrittore ma da un personaggio perciò c’è Cognetti che scrive di Cognetti che è quello esperto di montagna. Solo che un personaggio, per sua natura, non ha in dote la scrittura, scrive come detta l’editor – l’inventore del personaggio.
Così, il personaggio Cognetti aderisce integralmente alla patetica vulgata neoglobal, neohippie e fancazzista: un tot di anticristianesimo (“i cristiani piantano croci in cima alle montagne, i buddisti tracciano cerchi ai loro piedi. Trovavo della violenza nel primo gesto, della gentilezza nel secondo”: da dove avrà tratto simili conclusioni Cognetti?, e chi lo sa; dai riferimenti seminati nel testo scopriamo che il personaggio ha letto Tiziano Terzani e che “leggevo Messner e Bonatti”, gente con due palle così, per carità, non proprio degli studiosi di cose religiose), un velo di schifiltoso ripudio del genere umano (“la purezza a cui accediamo, o abbiamo l’illusione di accedere salendo alla quota degli elementi, si inquina in fretta tornando tra gli uomini”), un buffetto di antimodernità, che in realtà cela la più triviale adesione al pensiero unico (“nessuna invenzione della nostra epoca ci serviva a qualcosa, mentre camminavamo, se non un buon paio di scarpe e, nel mio caso, un libro nello zaino”).
Verrebbe da dire, dolce Cognetti Zen, perché, alla luce di ciò che scrivi, ti rivolgi a un editore come Einaudi, che stampa i libri grazie a macchine atroci e li distribuisce per l’Italia su brontosauri a quattro e più ruote, e perché ti pieghi a novanta partecipando a premi letterari che sono la cipria dei ricchi ingioiellati e il vanto degli sponsor promozionali al posto di condividere stornelli con gli stambecchi? Perché non abiti nella baita di un piccolo editore vendendo i libri in bicicletta? Lasciamo stare, nessuno è santo e Cognetti è solo un personaggio. Resta, al netto dell’inconsapevolezza del bravo-buono-giusto Cognetti (che palle: ma gli scrittori non dovrebbero essere dei rompicoglioni?, ah, già dimenticavo, questi sono personaggi…), un libro che prende per i fondelli il lettore. Cognetti si aggira per il Tibet e il Nepal senza sapere quello che vede né quello che descrive, potremmo essere in Himalaya o sulle Dolomiti è uguale (“Un ponticello fatto di tronchi conficcati nelle sponde e sporgenti nel vuoto… le pannocchie di mais sul tetto di una casa e una donna che rimestava l’orzo fermentato… poi pozze, ripide, rive di ghiaia bianca, isolotti di felci, anse sabbiose”: se ogni tanto non sbucasse qualche riferimento topografico, qualche parola straniera, non sapremmo di trovarci nell’Asia estrema), centellina una serie di scenette che sembrano la pubblicità del cioccolato Novi (“Gli offrii una mezza tavoletta di cioccolato, che accettò sorridendo… come stai Lakba? Che cosa pensi?”) e ruba le parole al “Piccolo principe”, piccolo furfante (“non tutto quello che esiste è visibile agli occhi”). Il personaggio Cognetti, d’altronde, non sa che le cose esistono se c’è un bagliore letterario che le magnifica: una fotografia pubblicata su Instagram è più autentica e narrativamente credibile del suo libro.
Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Einaudi 2018, pp.108, euro 14,00
La carota. Preludio in due mosse, assai banali. Primo. Uno che scrive il resoconto di un viaggio deve dirci, di quei luoghi, cose che nessuno ha mai detto prima, mica ciurlare con la tastiera. Per applicarsi nel genere, preliminarmente, occorre leggere i soliti nomi: Bruce Chatwin, Robert Byron, Patrick Leigh Fermor.
Secondo. Secondo me la letteratura è come la scienza: l’ipotesi migliore manda in dimenticatoio tutte le altre, non può convivere l’idea che la Terra è piatta ed è al centro dell’universo con quella che è un pianeta sferico, ruotante intorno al Sole, ai margini del cosmo. In letteratura, invece, crediamo che la Terra sia piatta. Voglio dire: pubblichiamo Cognetti senza cognizione di causa, ignorando che su Nepal, Tibet e Himalaya le cose più grandi le ha scritte Giuseppe Tucci, nanificando tutti gli altri. Così, mentre Cognetti passa il tempo a dirci quanto è bello Il leopardo delle nevi di Peter Matthiessen – non dico tanto ma… leggere almeno Fosco Maraini? – l’editoria italiana dimentica i libri di Tucci, non tanto Indo-tibetica, una tesoreria di studi, imprescindibili, ma i divulgativi Santi e briganti nel Tibet ignoto, A Lhasa e oltre, Tra giungle e pagode, Il trono di diamante. Insomma, è come se alla ‘Recherche’ anteponessimo Siddharta.
La cosa più sorprendente è che Giuseppe Tucci unisce le doti del narratore a quelle del super accademico, è un avventuriero e un esteta del verbo, è Indiana Jones e Joseph Conrad e Claude Lévi-Strauss insieme. Basta un brandello segato a caso (“Io non ho mai trovato i miei carovanieri tibetani imbronciati, piagnucolosi, lugubri come spesso sono quelli indiani: anche gli asceti raminghi, che vanno compiendo certi loro riti notturni paurosi in mezzo ai cimiteri per sprofondare nella contemplazione della irriducibile insostanzialità di tutte quante le cose e sono coperti di ossa umane e bevono in scatole craniche e suonano trombe fatte con femori, hanno un aspetto così lieto, così beatifico, sono così pronti al sorriso, che incontrarli, nonostante i loro macabri utensili, è quasi sempre un piacere”) per sprofondare nei penetrali del misterioso, maestoso Tibet. Il paese delle donne dai molti mariti, faretra di articoli di Tucci, è uno dei rari libri facilmente reperibili del grande studioso, un delizioso antipasto nella sua opera.
Il pensiero sull’elogio della Vita nomade, datato 1956 – ben prima del nomadismo come stile esistenziale sdoganato da Chatwin – è formidabile: Tucci ci trascina nella spirale dei suoi sogni, a cui ha dato eminenza scientifica (“Lo sprone della scienza secondava in me una nativa volontà d’evasione, un istintivo amore della libertà e dello spazio, il capriccio del fantasticare e del sognare che lo si soddisfa lontano dall’umano consorzio, quando si è soli fra cielo e terra, oggi qui domani là in un paesaggio quotidianamente nuovo, tra gente nuova, ma radicata dappertutto su questa terra antica”), ci stimola al grido del vagabondaggio (“L’orologio cessa il suo impero: questo inesorabile distributore e padrone delle nostre ore più non serve… la vita nomade è soggetta all’imprevisto… si ridestano allora, irrefrenabili nel cuore, certe indefinite meraviglie e paure che la coscienza afferra vagamente, tenebra e luce insieme, che conferiscono agli spazi nei quali erriamo sperduti un’animazione improvvisa: e quelli tutti si popolano di presenze potenze invisibili ed audaci, come per ricordare all’uomo la sua umiltà e la sua fragilità”), con la stessa ansia che fu di Marco Polo e di Odisseo e dell’uomo dei primordi. Lo leggiamo, Tucci, un gigante, e ci crescono stelle alle caviglie, l’impossibile si aggroviglia ai capelli.
Giuseppe Tucci, Il paese delle donne dai molti mariti, Beat 2017, pp.284, euro 10,00