Estratto dal libro L’era dello sharp power di Paolo Messa
Chi finanzia la propaganda online?
Un primo spaccato degli intrecci economici fra molti di questi siti è venuto alla luce con la già citata inchiesta realizzata da BuzzFeed e rilanciata dal New York Times nel novembre del 2017 sulla madre di tutte le sconfitte dell’ex segretario Pd e presidente del Consiglio Matteo Renzi: il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. All’epoca l’ex sindaco di Firenze aveva denunciato la minaccia di interferenze russe, come peraltro riscontrato dagli allarmi provenienti da Washington. Un anno dopo l’inchiesta di BuzzFeed. Undici pagine di report per sottolineare tutti i collegamenti fra i siti di area 5 Stelle e i contenuti di propaganda russa diffusi attraverso il circuito di Sputnik e RT. Particolare sino a quel momento inedito: tutti questi domini (da IostoconPutin.info a TzeTze) raccoglievano le risorse finanziarie della pubblicità avendo tutti lo stesso codice di identificazione assegnato da Google Analytics (servizio che censisce le visite a diversi siti), lo stesso numero AdSense (attraverso il quale il gigante di Mountain View gestisce e remunera gli annunci pubblicitari) e persino lo stesso template nella pagina dei contatti. Poiché la gran parte di questi siti risultava collegata al Movimento 5 Stelle, i pentastellati avevano precisato che si trattava di iniziative autonome, non ufficiali e che le convergenze erano frutto dell’intraprendenza di un attivista. Dopo la pubblicazione dell’articolo sul New York Times, con relativo rimbalzo sui media italiani, il blog di Beppe Grillo ha rarefatto, ma non interrotto del tutto, i link a questi siti.
La notizia più intrigante e per certi versi sorprendente era però che ad avere lo stesso IP era il sito di Noi con Salvini (il movimento parallelo alla Lega per chiedere la premiership del «capitano»). Pochi giorni dopo l’uscita dell’inchiesta di BuzzFeed, il responsabile della comunicazione digital della Lega, Luca Morisi, ha dovuto ammettere che in effetti il loro sito condivideva i codici Google con siti estranei al loro movimento politico. Più in particolare, la tesi di Morisi, citata dal quotidiano di New York, era che il sito Noi con Salvini era stato costruito anche da un ex sostenitore del Movimento 5 Stelle incollando i codici della sua pagina di sostegno ai 5 Stelle nella pagina del sito salviniano (oltre che ovviamente nelle pagine dei siti complottisti e filorussi tipo IostoconPutin.info). I dirigenti dei due partiti hanno subito negato ogni collegamento con Mosca e promesso di cambiare i codici.
Le policy di Google non consentono di penetrare il muro della privacy circa l’intestatario del codice IP su cui per mesi sono confluiti tutti i soldi della pubblicità. Data l’ampiezza dell’audience raggiunta dalla totalità dei domini coinvolti non parliamo di cifre irrisorie. Un altro dubbio, che tale resta, riguarda la modalità con cui questi introiti sono stati suddivisi fra i diversi siti. I sospetti di una commistione più forte del previsto fra i grillini e i salviniani nel nome di Putin – resi espliciti nell’articolo del New York Times – vennero ben presto archiviati come fantasiosi o risultato di una manovra di Renzi per giustificare l’imminente sconfitta. Il dubbio della cospirazione prevalse e ben presto questa «coincidenza» venne archiviata salvo riemergere sporadicamente nei mesi successivi: fintantoché Di Maio e Salvini il patto di governo lo hanno firmato per davvero, inserendo, fra l’altro, l’apertura ufficiale a Putin (con tanto di impegno contrattuale a rivedere il meccanismo delle sanzioni contro la Russia) come punto qualificante e centrale della loro intesa.
Non ci sono elementi che possano provare un nesso di causa-effetto fra queste coincidenze, ma quello che non si può negare è che la rete, ben manovrata, sia stata se non catalizzatrice almeno anticipatrice dello scenario politico che si è poi determinato in Italia. Prima di entrare nel dettaglio dei rapporti fra Mosca e le forze politiche del nostro Paese, ancora qualche spunto di riflessione circa la capacità del network di comunicazione filorusso di recuperare finanziamenti. Il quotidiano la Repubblica aveva affidato ai giornalisti Carlo Bonini e Giuliano Foschini un’inchiesta che venne pubblicata alla vigilia del voto referendario del 3 dicembre 2016, anch’essa travolta dalle cronache successive. La loro analisi partiva dal presupposto che le fake news e i siti complottisti in genere godano di una particolare curiosità da parte del popolo web. Questo si traduce automaticamente in traffico di visitatori e pubblicità, quindi denaro.
Attraverso la testimonianza di un «bufalaro» pentito, i giornalisti italiani ricostruivano come nel contesto dei social media possa essere relativamente facile moltiplicare i visitatori e viralizzare contenuti falsi o anche solo verosimili. Ottenendo un guadagno che, a sua volta, passa per intermediatori, i broker pubblicitari. A lavorare con questi siti, spiegava Repubblica, sono società che si chiamano Criteo, Chamaleon, Adnow. Infine, veniva segnalata un’azienda in particolare («una startup che brilla per aggressività e redditività»): la Clickio. A ben vedere si tratterebbe di un satellite della AdLabs, una delle più importanti concessionarie pubblicitarie in Russia. Il sospetto – subito smentito dagli interessati – è che la remunerazione molto più alta offerta dalla Clickio sia subordinata al fatto che gli editori/clienti condividano sui loro siti posizioni filorusse. Anche in questo caso, seguendo la traccia pubblicitaria, ci si imbatte in giornali online come Direttanews o L’Antidiplomatico. Sembra un cerchio che si chiude. Almeno nell’indagine giornalistica. In questo intricato caleidoscopio di interessi politici, economici e culturali non si intravedono reati e neppure si può giungere alla conclusione che i complottisti abbiano ordito il complotto perfetto per far cadere una maggioranza filoatlantica. Serve senso della misura e comprendere le dimensioni di un fenomeno che forse non determina da solo un risultato elettorale, ma neppure risulta indifferente nella costruzione delle percezioni dell’opinione pubblica. Dal punto di vista di Mosca, si può definire un successo che travalica la dimensione del soft power. È decisamente sharp.