Bastone e carotaSusanna Tamaro non vale Barbara D’Urso. Rifatevi con un genio come Pierluigi Cappello

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato a settimana. Susanna Tamaro -bando agli snobismi- è stata una scrittrice vera. È stata, perché le restano solo terrificanti banalità. Leggete invece un poeta imprevisto, vero, poco conosciuto: Pierluigi Cappello

Il bastone. La prima tagliola scatta subito, sette pagine dopo. Un clangore che offende. Lì, sulla cima dell’ego trionfante, si corrompe il rapporto con il lettore. Lo scrittore che si cita (“…l’avevo scritto anche in Va’ dove ti porta il cuore”): c’è qualcosa di più barbaro, di più infelice? Alla fine, invece – perché allo scrittore va sempre offerta una via d’uscita, una meravigliosa redenzione –, inghiotto la rabbia, proseguo. Pagina 201. Seconda tagliola. Letale. “Noi che abbiamo avuto il dono della scrittura… quando non ci saremo più, le nostre parole saranno ancora qui, come scintille andranno in giro a incendiare la Terra”. No, non m’importa la similitudine – che rimane banale come lo spot di un profumo. M’importa il concetto. Uno non scrive per salvare se stesso, per resistere qualche attimo in più della propria morte – che visione meschina. Uno scrive perché gli altri, i vivi, si salvino, perché altri, attraverso quelle parole – poco importa chi le abbia scritte – riescano a sopravvivere. D’altra parte, “i libri salvano la vita”, è vero, l’ha detto pure lei, l’autrice, Susanna Tamaro, solo che scritto così, ancora, sembra uno spot, questa volta del Miur per invogliare gli sfaticati studenti alla lettura – convincendoli, così, che è bene fare altro, tutt’altro. Detto questo, parto da un fatto superficiale – a quello sgradevole arrivo dopo. Susanna Tamaro è molto più brava di molte scrittrici ben più considerate di lei – dico a vanvera: Teresa Ciabatti, Helena Janeczek, Veronica Raimo – non sono tra i suoi “detrattori”, però la sua etica ecologica (“Dov’erano i campi di granturco della mia adolescenza? Spariti. Al loro posto era sorta un’ininterrotta serie di centri commerciali”) si riduce a una cover del Ragazzo della via Gluck. I concetti espressi dalla Tamaro, specie di Cappuccetto Rosso nel bosco atro e atroce della letteratura italica, sono infantili (“Nella storia dell’umanità il clima si è sempre modificato, ma ciò che colpisce in quello che stiamo sperimentando in questi ultimi tempi è la rapidità con cui sta avvenendo”), astiosamente elementari (“E il web cos’altro è se non una tela di ragno?… La tela è calata su di noi e ci ha imprigionato”), decisamente kitsch (“Vivere è un passo a due e, per capire la direzione da intraprendere, bisogna sapersi mettere in ascolto”: pare di origliare Barbara D’Urso che dà consigli di vita a un guru tronista). Ma questo è niente, in fondo l’antimodernità esagitata propugnata dalla Tamaro è perfino comprensibile (si rassicuri, sora Susanna, non è lei la sola che si eccita “all’idea di mangiare una pizza fatta in casa” o che sa “gioire per la semplice presenza di una cincia fuori dalla finestra”, questa aristocrazia dello stupore è stucchevole e anche fastidiosa, perché sono in molti quelli che hanno occhi per vedere e orecchie per ascoltare, come si permette di giudicare il lettore ad ogni riga?). La cosa sgradevole, piuttosto, è che la Tamaro prende a parlare di sé, preda di un autobiografismo da iena (“Quando uscì Va’ dove ti porta il cuore la cosa che più mi colpì furono le reazioni livide che suscitava nelle élite culturali la parola ‘cuore’. Il libro veniva considerato spazzatura culturale, roba per persone ignoranti facili da abbindolare, trivialità neppure degne dei Baci Perugina”: questo cosa significa?, che non si è più liberi di considerare un brutto libro “spazzatura culturale”?, e poi, da quale spocchioso pulpito qualcuno può blaterare di “élite culturali”?, chi sono, di chi si parla, si facciano i nomi, le battaglie a mitraglie di astrazioni siam bravi tutti a farle), sul corpo di un morto. Il morto è il poeta Pierluigi Cappello, con cui la Tamaro vanta una sonora e salutare amicizia. Solo che al posto di invitare il lettore a leggere le poesie dell’amico morto, molto belle (leggi sotto), la Tamaro ci narra di sé, della sua triste infanzia, delle trite cose che gli capitano tutti i giorni. Di fronte alla morte, in rispetto ai morti, ci vuole pudore – e una certa grazia nell’adorare il dolore altrui.

Susanna Tamaro, Il tuo sguardo illumina il mondo, Solferino 2018, pp.206, euro 15,00

La carota. Ho conosciuto Pierluigi Cappello, ma non sono Susanna Tamaro, non ho munto l’amicizia traendovi il veleno di un libro. Lo conoscevo – la casa dei poeti è così stretta, claustrofobica, rispetto alla loro fame, infinita – da quando dirigeva ‘La barca di Babele’; poi accadde Assetto di volo, era il 2006, e Nicola Crocetti – che la Tamaro dimentica di nominare nel suo libro – mi parlò di lui come di un prodigio. Non sapevo dell’incidente, della sedia a rotelle, m’importava dell’opera. La mia matita si è fermata su Isola – “Concedi a coloro che erano ciechi/ e a dismisura adesso vedono,/ rotto il sigillo della fiamma,/ l’ustione della carezza, il fragore/ del pungo, ora che sanno/ il tossico del palmo e delle nocche/ ed è notte…” – perché amo chi da queste macerie innalza il canto, facendo lira delle lamiere, e quante volte, troppi anni fa, ci siamo permessi di non fare distinzioni tra gli Achei sotto le mura di Troia e le scie che bruciano Baghdad, tra il cavaliere di Ariosto e Saint-Exupéry, guidatore di aerei con il sogno che svetta sugli alettoni. Dell’infermità e dell’incidente seppi dopo, quando lo incontrai a Milano, di sfuggita – il nostro patto personale era darci, a costato pieno come un elmo, alla letteratura. Nel 2008 incapsulai Cappello in una antologia di ‘nuovi poeti’ allestita per Città Nuova che ha ancora, credo, il merito dell’avventatezza e soprattutto della severità: ne scelsi soltanto nove, di poeti, non certo celebri. Da allora, per qualche anno, Pierluigi prese a telefonarmi per leggere i suoi testi, appena limati. Lo stesso, so, faceva con altri, la nostra fu una amicizia franca, non una primizia. Quando, da il Giornale, mi dissero della morte, ero a pranzo, barcollai, fui io quello menomato in quel momento, l’incidentato: pensavo potesse vincere il male, non lo sentivo da un tot, tentai di cavare un unicorno dal ‘coccodrillo’. Ora che il poeta è morto, ci è chiesto un dovere di chiarezza: Assetto di volo è un grande libro, decisivo; altri lo sono meno. Questa libertà è un buon libro, pieno di intuizioni, ma io amo le prose de Il dio del mare, pubblicate, all’epoca – era quel fatidico 2008 – da Lineadaria Editore. Me lo autografò, Pierluigi, donandomelo, “per Davide con un grazie per la sua passione”. Di quel libro, dalle pagine spesse come scorza di limone, eppure così delicato, amai l’idea della scrittura come un bunker e come un Eden (“Se esiste un Eden, come mi ha suggerito un amico, un giardino dove la perfezione è ordinaria, ogni poesia perfetta che sia stata scritta in questo mondo è un petalo di quell’Eden, un momento nel quale realizzare la propria intuizione”), comunque, come qualcosa di conchiuso, di risolto e risoluto. Oggi “Tutte le poesie” di Pierluigi sono raccolte da Rizzoli – di cui Solferino, l’editore del libro della Tamaro, guarda caso, è una emanazione – nel tomo Un prato in pendio. In una poesia che amo molto, di Pierluigi, in dialetto, Rondeau, ho cerchiato l’ultimo verso, “in cheste lenghe nude e in nissun puest”. In questa lingua nuda e in nessun posto. Dove abita il poeta – è la stessa casa dei morti.

Pierluigi Cappello, Un prato in pendio. Tutte le poesie 1992-2017, pp.492, euro 16,00

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