Il bastone. L’apice del trash è l’incontro tra Antonio e Cleopatra, a Tarso. La bella è sulla nave, in allucinato splendore, “senza veli”, ipotizza lo scrittore, “il suo è un arrivo in stile Lady Gaga”. Lo shock estetico è tale che bisogna rileggere due volte. Cleopatra come Lady Gaga. Ho letto bene. D’altronde, quel marcantonio di Marco Antonio, stordito dall’avvenenza della regina d’Egitto, fa la faccia da fesso, la sua espressione “non è molto diversa da quella di Jim Carrey nel film The Mask, con la mandibola che casca a terra…”. Cleopatra come Lady Gaga e Marco Antonio come Jim Carrey: questa non è divulgazione ma un attentato all’intelligenza, è ammettere platealmente che i tuoi lettori sono teleutenti deficienti, sordi a ogni sapienza. D’altronde, in questo peplum pepato, un polpettone storico soft porno, l’effervescenza – al netto delle pagine cronachistiche e dei dati snocciolati alle spicce – sta nel mostrare le nudità di re e di regine, i loro intrecci regali, in un revival di Beautiful (il pubblico presunto, in fondo, è quello, attempato, scemo e voglioso). Così, Marco Antonio, descritto in un capitolo dal titolo marmoreo (“Schiavo d’amore e del sesso”), è dotato di “petto ampio e muscoloso”, ha “il corpo massiccio e possente di un Ercole”, insomma, rullo di tamburi, “ha il fascino dell’uomo brizzolato” – viene da pensare che il giornalista-scrittore si sia fatto il narcisistico autoritratto – e si sbatte la reginetta d’Egitto seduta stante (“quasi certamente tra loro scatta la scintilla del sesso fin dalle prime serate”: ma che cavolo ne sa il giornalista-divulgatore-voyeur, possiede forse qualche nastro che testimoni l’arte amatoria di Cleopatra e dimostri la minchia marcantoniesca di Marco Antonio?). La frase che segue (“In una rovente storia di passione e sesso, i due si cercano, i loro corpi si avvinghiano, le loro bocche si uniscono e i loro sensi si fondono”) sarebbe censurata perfino nel più ovvio degli Harmony, a tutto c’è un limite. Illimitato, piuttosto, è l’accanimento sessomane dello scrittore-divulgatore, che qualche pagina prima s’è sprecato nel narrare il fotti-fotti tra Giulio Cesare e la medesima Cleopatra (descritta in un tripudio di latria retorica e di latrati verbali così: “è un corpo seducente, tonico e armonioso nelle forme. Il seno è florido anche se non abbondante, i glutei sono sodi e torniti, la vita stretta accentua l’ampiezza dei fianchi”, manca solo la fotografia e l’eventuale sito internet cui rivolgersi quando si è preda di indecorose brame).
Perché Alberto Angela, un ottimo divulgatore televisivo, sente la necessità di scrivere l’imitazione di un romanzo, in cui si sdilinquisce in scenette erotiche in stile Harmony?
In quel caso il giornalista col tic per l’archeologia è quasi certo di aver svelato l’arcano mistero: è il divo Cesare, più che cinquantenne, calvo ma pimpante, ad aver sverginato Cleopatra, ventenne (“Essendo vergine o con poca esperienza… è verosimile che nella sua prima notte d’amore si sia rivelata un po’ timida e impacciata… Cesare è forse stato il primo a guidarla alla scoperta dei piaceri del sesso”). D’altronde, non c’è bisogno di leggere così tanto. Basterebbero le prime due frasi del romanzo, intinte nel miele, nel nonsenso verbale, prive di qualsiasi scaltrezza narrativa (“Lo sguardo è rivolto a un orizzonte lontanissimo, quasi cercasse l’abbraccio di sensazioni e ricordi dolci e protettivi. Uno scialle di seta, che un refolo di vento gonfia come una vela, le incornicia il volto”: parole come ricordi dolci e protettivi, refolo, incornicia il volto, non le usa neanche una liceale nel diario dei sogni preda di vomitevoli reminiscenze carducciane), a mandare in furia l’editor di qualsiasi casa editrice, anche la più squattrinata, vanificando il vaniloquio del manoscritto. Ma qui, siori, si parla di Alberto Angela, il Marco Antonio della Rai, per cui l’editore s’inchina, pubblica ed esulta censendo le vendite presunte, fregandosene del lettore, che scemo è e tale resta. Resta, piuttosto, un interrogativo: perché Alberto Angela, che è quello che è, un ottimo divulgatore televisivo, sente la necessità di scrivere un libro, l’imitazione di un romanzo, in cui si sdilinquisce in scenette erotiche buone a ringalluzzire, forse, gli abbonati in prima fila? Di che cosa ha bisogno, il divino Alberto, di vincere un Premio Strega? Il suo libro su Cleopatra, per altro, è scritto come un documentario, solo che non c’è nulla da vedere e niente da leggere. Semmai, ci si rosola tra rabbia e risate: la prossima biografia Albertone la dedicherà a Lady Gaga, ha già la palpebra dell’innamorato cotto. Altrimenti, gli tocca svelare l’ennesimo mistero: davvero Elisabetta I d’Inghilterra era aliena ai piaceri del sesso oppure, come dimostrano gli studi più accurati, era una scriteriata ninfomane, ordiva gang bang mentre il guitto di corte, a conciliare l’atto, leggeva Antonio e Cleopatra?
Alberto Angela, Cleopatra. La regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità, HarperCollins 2018, pp.480, euro 20,00
La carota. La storia non la fanno i reperti – frammenti isolati di esistenze corrotte, morte – e neanche i fatti, vanità delle vanità, ma gli scritti, anzi, gli scrittori. Cesare, va da sé, non è la noia bellica della Guerra gallica, ma l’ansia inquieta per il dettaglio di Plutarco e la magia lirica di Shakespeare. Per questo, la storia va lasciato a chi la sa fare, ai romanzieri: il lettore non si accontenti di nulla che sia inferiore all’Adriano ricostruito da Marguerite Yourcenar o alla ‘tetralogia’ biblica di Thomas Mann; eventualmente accetti Io, Claudio di Robert Graves o Mario l’epicureo di Walter Pater, con quegli svolazzi estetici tanto importanti – hanno influenzato Marcel Proust – che non sono più meritevoli di essere pubblicati in questo Paese dove al genio si antepone l’indegno. In Italia abbiamo notevoli interpreti del ‘genere’, ancora oggi, noti (Roberto Pazzi, ad esempio) o meno noti (Gerardo Passannante, che per anni ha lavorato a un romanzo storico in più tomi, Il declino degli dèi, dedicato a snidare le ragioni della fine dell’impero romano, da Diocleziano a Giuliano l’Apostata). Vale sempre la pena, poi, riscoprire per l’ennesima volta il Davide e il Budda di Carlo Coccioli stampati, all’epoca, da Rusconi. Ma qui comincia davvero un’altra storia. Il fatto è che Alberto Angela non è né divulgatore – per quello, lasciamo fare agli anglofoni: avete mai letto Simon Winchester?, lo stampa Adelphi, imparate un mucchio di cose, scrive come un demone – né scrittore né studioso – sia lode all’editore Salerno, che pubblica libri storici di eccezionale fattura: tra gli ultimi segnalo quello di Giorgio Ravegnani, Ezio, “l’ultimo dei Romani, il generale che sconfisse Attila prima della caduta dell’Impero”. Sta nel pantano, Angela, dove s’impaniano i lettori e si rimpinguano le casse degli editori in bolletta. Visto che siamo sotto Natale, però, fatevi un bel regalo, il canzoniere di Catullo, il geniale poeta romano, tradotto e commentato da Alessandro Fo, che è latinista – a Siena – che è soprattutto poeta e che ha anche il gusto narrativo e la sapienza della pazienza, mette il sale in zucca pure a uno zuccone come me. Fo – che per Einaudi ha già realizzato una luminosa versione dell’Eneide di Virgilio – si confronta con i tantissimi che hanno ‘manomesso’ i versi immortali – e a volte immorali, pieni di licenziose licenze – di Catullo (da Salvatore Quasimodo a Enzo Mandruzzato, da Guido Ceronetti a Luca Canali) dandoci un libro, finalmente, definitivo, pieno di vita e di grazia (“Aver potuto prestare parole e ritmi della propria lingua a questa incredibile voce, a uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, rimane a mio parere uno dei grandi traguardi che da soli possono dare un significato alla vita”). Si capisce meglio la Roma antica leggendo i voluttuosi gorgheggi di Catullo, che tramano emozioni senza tempo, che un tomo languidamente divulgativo. Travisando di un tot i tempi e travasando i sensi, la poesia 43 sembra dedicata a Cleopatra (“Ciao, ragazza dal naso non minuscolo…/ Te confrontiamo con la nostra Lesbia?/ Ah, che epoca insulsa ed insipiente!”), mentre è magnifico il ‘battibecco’ tra il poeta in amore (“non appena te, o Lesbia, io vedo/… s’impasta la lingua…/ scende doppia/ notte sugli occhi”) e la sua amata Lesbia (“L’ozio a te, Catullo, procura danno,/ l’ozio troppo ti esalta e fa smaniare”). Per lasciarsi mordere dal “mostruoso morbo” dell’amare – senza farmaco che sappia sconfiggerlo – Catullo è poeta eccelso.
Gaio Valerio Catullo, Le poesie, a cura di Alessandro Fo, Einaudi 2018, pp.CLXIII+1324, euro 58,00