Il caso limite è Untraditional di Fabio Volo, che potrebbe essere usata dalla Cia come strumento di tortura alternativo al waterboarding. Tuttavia, nel momento in cui anche la serie di Virginia Raffaele – una delle migliori attrici italiane per distacco – si rivela un flop, ci si interroga sul perché, mentre tutto il mondo cavalca l’era di platino delle serie TV, da noi il massimo della vita siano ancora le fiction di Rai Uno, da sempre considerate dalla comunità scientifica validi rimedi per l’insonnia.
Hai voglia a dire che è un problema di budget: se in Germania fanno Dark e in Spagna La casa de papel è chiaro che non si può sempre ridurre il tutto alla mancanza di pecunia. La prima ragione del divario, piuttosto, non riguarda soltanto la fiction ma pure il nostro ugualmente agonizzante cinema, giù fino alle web series.
Qualunque sia il medium, il budget o il genere dell’opera, la certezza è una sola: prima o poi, sullo schermo compare un attore che parla come un notaio sessantenne del quartiere Prati di Roma. Non importa se la storia sia ambientata nella pianura padana o fra le colline del Piemonte: lo Spirito del Notaio si impossessa di tutti i personaggi principali, e spesso pure di quelli secondari. La lingua parlata da un attore è fondamentale per creare la famigerata “sospensione dell’incredulità”, condizione necessaria per permettere allo spettatore di godere di un’opera di finzione. E’ per questo che in America ci sono i dialect coach, per rendere il linguaggio il più vicino possibile alla realtà: se sei un operaio dell’Ohio non puoi esprimerti come un avvocato di New York.
Noi invece siamo ancora fermi al concetto superato e obsoleto di “dizione”, inesistente nella realtà, retaggio della tradizione teatrale che non ha niente a che vedere con la lingua che dovrebbe essere utilizzata in un film. Non a caso, le più rumorose eccezioni alla tristezza delle nostre serie TV sono quelle in cui il romanesco è funzionale al tema (Romanzo Criminale) o quelle in cui gli attori sono lasciati liberi di parlare naturalmente (Gomorrah, Faccia d’Angelo). Spesso, tuttavia, la colpa non è nemmeno dei poveri attori, che magari vorrebbero evitare di passare settimane sul set obbligati a parlare come Pino Insegno.
L’industria della fiction italiana, come ogni altro settore economico del Paese, è essenzialmente un’industria di anziani che produce contenuti per altri anziani
E qui entrano in causa gli sceneggiatori, gente convinta non solo che la Terra sia piatta, ma pure che le Colonne d’Ercole coincidano con il Grande Raccordo Anulare. Qualunque insegnante di sceneggiatura americano, da Robert McKee in giù, spiega come il lavoro dello sceneggiatore sia estremamente dinamico, avendo molto più a che fare con la ricerca sul campo che con la scrittura.
Il romanziere, il saggista o il poeta, trascorrono le giornate alla scrivania, chini sul computer, mettendo in fila le parole. Scrivere è il loro mestiere e il risultato del loro lavoro coincide con il prodotto che sarà venduto. Questo non vale per lo sceneggiatore, il risultato dei cui sforzi non costituisce un prodotto finito destinato alla vendita, ma un supporto intermedio che servirà ad altri professionisti per svolgere il proprio lavoro.
Da ciò ne consegue che una sceneggiatura non deve essere “scritta bene” e che il compito dello sceneggiatore non sia quello di trovare l’aggettivo perfetto con cui descrivere un tramonto. Il suo compito, al contrario, è passare il tempo a fare ricerche, avanti indietro su un autobus origliando le conversazioni, avvicinando persone improbabili per intervistarle sulla propria vita o la propria professione. Il problema fondamentale degli sceneggiatori italiani è che si sentono scrittori, o peggio ancora “autori”, per usare un termine che nel settore ha prodotto danni irreparabili – altro che Netflix o Amazon.
Che abbiano sessant’anni o trenta non cambia nulla: la maggior parte pensa che il proprio lavoro consista nello “scrivere” e così, chiusi nei loro studioli trasteverini, producono pagine e pagine di descrizioni inutilmente poetiche alternate a dialoghi stile Madame Bovary alla vaccinara. Non si rendono conto che la materia prima del loro lavoro non è la parola, ma la realtà, che spesso hanno smesso di frequentare da un pezzo. E infatti mentre le serie straniere hanno sempre un profumo di nuovo, le serie televisive italiane emanano un’insopportabile puzza di vecchio.
Un esempio è proprio Baby, l’ultima miniserie Netflix. Sei ore di chiacchiere per dire che la coca fa male, i social sono il regno dell’apparire, i pariolini degli stronzi e via di questo passo. Una sequenza di cliché moraleggianti che raccontano non la vita degli adolescenti di oggi, ma i luoghi comuni che chiunque si immagina quando pensa a loro.
Baby, sei ore di chiacchiere per dire che la coca fa male, i social sono il regno dell’apparire, i pariolini degli stronzi e via di questo passo. Una sequenza di cliché moraleggianti
Come è stato osservato, basta ascoltare una canzone trap o guardare un episodio di Cartoni Morti per capire che i ragazzi del mondo reale sono infinitamente più sgamati dei ragionieri della trasgressione di Baby. A volte, però, come per gli attori, la colpa non è nemmeno degli sceneggiatori. L’industria della fiction italiana, come ogni altro settore economico del Paese, è essenzialmente un’industria di anziani che produce contenuti per altri anziani. È inutile portare a un produttore un prodotto innovativo se quel produttore non ha mai visto un episodio di Breaking Bad, ma a casa conserva gelosamente il cofanetto con gli episodi di Commesse autografato dalla Ferilli. E del resto, sarebbe inutile spendere milioni di euro per produrre una serie su un professore malato di cancro che produce meth: il telespettatore italiano medio salterebbe dalla poltrona invocando l’intervento di Montalbano, di Gianni Morandi o di Manuelona Arcuri in divisa da carabiniere.
Intendiamoci: anche in America The Wire o Mad Men hanno sempre realizzato ascolti bassi in percentuale. Il problema è che in America i numeri sono talmente grandi in assoluto che è possibile rientrare con l’investimento anche con un prodotto di nicchia – e poi venderlo all’estero grazie alla lingua. Da noi questo è sostanzialmente impossibile. Senza una proprieta’ intellettuale forte alle spalle, un prodotto che si azzardasse a rompere i canoni sarebbe condannato dal mercato alla sconfitta, creando “il precedente” che scoraggerebbe tutti gli altri a ritentarci.
Come con la classe politica, insomma, anche con le serie TV ogni Paese ha quelle che si merita, e noi ci meritiamo quelle che abbiamo. Tra quella di Fabio Volo e il waterboarding, tuttavia, continua ad essere largamente preferibile il waterboarding.