John Berger non sopportava di essere definito un critico d’arte. Lo riteneva un insulto. Eppure per tutta la vita ha continuato a descrivere i suoi incontri con l’arte, le epifanie di fronte a un dipinto o una scultura, i viaggi immaginari negli atelier in cui un’opera veniva pensata e realizzata. Poco importava che quegli incontri assumessero le sembianze di un romanzo, una poesia o un saggio; non si trattava di critica, ma di narrazione nel senso più antico del termine.
Ritratti è la raccolta più completa degli incontri di John Berger con i suoi artisti: dai pugnaci scritti militanti degli anni cinquanta a quelli più recenti e pensosi.
John Berger (1926-2017) è stato giornalista, pittore, critico d’arte e scrittore. Con il romanzo G. (Neri Pozza) ha vinto nel 1972 il Booker Prize. Il Saggiatore ha pubblicato Questione di sguardi (2015), Perché guardiamo gli animali? (2016), Smoke (2016) e Sul guardare (2017)
Un estratto da Ritratti di John Berger (Il Saggiatore)
Poiché Courbet era un socialista dichiarato e incorruttibile (fu ovviamente incarcerato per il ruolo svolto nella Comune e negli ultimi anni della sua vita costretto all’esilio in Svizzera), i critici reazionari hanno preteso che le sue convinzioni politiche non avessero niente a che fare con la sua arte – se non sono riusciti a negare anche quella è stato solo grazie alla forte influenza che egli ebbe su pittori più tardi quali Manet e Cézanne; i critici progressisti, dal canto loro, hanno perlopiù ritenuto che la grandezza della sua arte sia il risultato automatico della sua fede politica. È dunque pertinente chiedersi in che modo esattamente il suo socialismo si manifestasse nei suoi dipinti, in che modo il suo atteggiamento verso la vita si riflettesse nelle innovazioni della sua arte.
Prima, però, è necessario togliere di mezzo un po’ del fango che si è incrostato. Dal momento che Courbet era irremovibile nelle sue convinzioni, che la sua opera e il suo stile di vita hanno dimostrato «volgarmente» che l’arte era adatta al retrobottega, al laboratorio, alla cella, non meno che al salotto, che i suoi dipinti non hanno mai offerto la minima possibilità di astrarsi dal mondo così come era, lo hanno ufficialmente rifiutato finché era in vita, e da allora lo hanno solo a malincuore accettato. È stato accusato di essere enfatico. Guardate il suo autoritratto in prigione. Seduto accanto alla finestra, fuma tranquillamente la pipa: la luce del sole nel cortile là fuori è il solo commento alla propria reclusione. Oppure guardate la sua copia dell’autoritratto di Rembrandt. A cinquant’anni aveva l’umiltà di imporsi una simile disciplina. È stato accusato di essere grossolano. Guardate una marina di Normandia, in cui l’aria che si dirada tra il mare vuoto e le nuvole basse trattiene saldamente ma con una delicatezza straordinaria tutto il mistero implicito nella realtà apparente e nell’illusione reale dell’orizzonte. È stato incolpato di sentimentalismo. Guardate il suo dipinto della grossa trota presa all’amo; la sua fedeltà alla sostanza dei fatti ci costringe a sentire il peso del pesce, la forza con cui, nella lotta, la coda schiaffeggia le rocce, la scaltrezza necessaria a ingannarlo, la determinazione necessaria ad arpionarlo – sarebbe troppo grande per la rete. In qualche occasione, ovviamente, tali critiche sono giuste, ma non c’è artista che dipinga solo capolavori, per esempio l’opera di Constable (cui Courbet nel suo contributo indipendente alla pittura di paesaggio in qualche modo somigliava), di Corot o di Delacroix è altrettanto diseguale, ma viene assai meno di frequente fatta oggetto di attacchi prevenuti.
Per tornare però al problema principale: Courbet credeva nell’indipendenza dell’artista – fu il primo pittore a tenere una mostra personale. Ma per lui questo significava indipendenza dall’arte per l’arte, dalla diffusa idea romantica che l’artista o la sua opera fossero più importanti dell’esistenza del soggetto dipinto, e, all’opposto, dall’idea classica secondo la quale l’ispirazione di tutta l’arte era assoluta e senza tempo. Si rendeva conto che l’indipendenza dell’artista poteva essere produttiva solo se si riferiva alla libertà del pittore di identificarsi con il proprio soggetto vivente, di sentire che era lui a far parte di esso, mai viceversa. Per il pittore in quanto tale il significato del Materialismo è questo. Courbet lo espresse a parole – l’indistruttibile rapporto tra aspirazione umana e fatto reale – quando scrisse: «Savoir pour pouvoir – telle fut ma pensée». Ma la conoscenza che Courbet, con tutta la sua forza d’immaginazione, aveva della realtà degli oggetti che dipingeva non degenerava mai in naturalismo: uno sgranare gli occhi sbadato e superficiale sulle apparenze – lo sguardo che il gitante posa su una bellezza paesaggistica, per esempio. Non abbiamo solo la sensazione che ogni scena da lui dipinta apparisse così, ma che fosse conosciuta così. I suoi paesaggi rurali erano rivoluzionari poiché presentavano luoghi reali senza suggerire alcuna antitesi romantica alla città, ma al loro interno – non sovrimposto a essi – possiamo rintracciare anche un senso di Arcadia potenziale: il riconoscimento locale che, per i bambini intenti al gioco o per le coppie di innamorati, in scene tanto ordinarie poteva raccogliersi una magia familiare. Il magnifico nudo di fronte a una finestra con paesaggio è l’intransigente ritratto di una donna svestita – soggetta, al pari della trota, a molte delle stesse leggi; ma, al contempo, il dipinto evoca lo shock della solitudine inaspettata della nudità: lo shock personale che ispira gli amanti, espresso in modo diverso nellaTempesta di Giorgione. I suoi ritratti (i capolavori di Jules Vallès, van Wisselingh, Il cacciatore) sono persone specifiche; possiamo immaginare come cambieranno; possiamo immaginare i loro vestiti indossati da qualcun altro per il quale non sono della taglia giusta; eppure hanno in comune un’identica dignità perché tutte sono viste con la consapevolezza affettuosa dello stesso uomo. La luce gioca con loro benevolmente perché ogni luce che rivela la forma dei propri amici è benvenuta.
Un principio simile si applica al disegno di Courbet e alla sua comprensione della struttura. La forma di base è sempre stabilita per prima, tutte le modulazioni e le diversificazioni della texture sono dunque viste come una variazione organica – proprio come le eccentricità del carattere sono considerate dall’amico, a differenza dell’estraneo, parte dell’intero uomo.
Per riassumere in una sola frase, si potrebbe dire che il socialismo di Courbet si manifestasse nella sua opera attraverso la sua qualità di Fratellanza priva di inibizioni.
(1953)
Nessun lavoro artistico si lascia ridurre alla verità assoluta; come la vita dell’artista – o la vostra o la mia –, l’opera di una vita costituisce la propria, più o meno valida, verità. Spiegazioni, analisi, interpretazioni non sono altro che cornici o lenti che aiutano lo spettatore a focalizzare più nitidamente la sua attenzione sull’opera. La sola ragion d’essere della critica è che ci consente di vedere più chiaramente.
Vari anni fa scrissi che restavano da spiegare due punti ancora oscuri riguardanti Courbet. Innanzitutto, la vera natura della materialità, della densità, del peso delle sue immagini. In secondo luogo, le ragioni profonde per cui il suo lavoro ha tanto scandalizzato il mondo borghese dell’arte. Da allora, al secondo quesito hanno brillantemente risposto non – come ci si poteva aspettare – uno studioso francese, bensì un inglese e un’americana: Timothy Clark nei suoi due libri, Immagine del popoloe The Absolute Bourgeois, e Linda Nochlin nel suo testo Il realismo nella pittura europea del xix secolo.
Il primo interrogativo, invece, è rimasto senza risposta. La teoria e il programma del realismo di Courbet sono stati spiegati dal punto di vista sociale e storico; ma come lo praticava con gli occhi e con le mani? Che significato dare alla sua maniera davvero unica di rendere le apparenze? Quando diceva: l’arte è «l’espressione più completa di una cosa esistente», che cosa intendeva dire con il termine espressione?
Il luogo dove un pittore trascorre l’infanzia e l’adolescenza spesso svolge un ruolo importante nell’elaborazione della sua visione. Il Tamigi ha educato Turner. Le falesie intorno a Le Havre sono state formative nel caso di Monet. Courbet crebbe nella valle della Loue, sul versante occidentale delle montagne del Giura – un luogo che non smise mai di dipingere e dove tornava spesso. Osservare il carattere della campagna intorno a Ornans, sua città natale, è, a mio parere, un modo di inquadrare il suo lavoro per metterlo a fuoco.
La regione ha un indice di piovosità molto alto: circa 130 cm d’acqua all’anno, mentre nelle pianure francesi la media varia da 79 cm nelle zone dell’Ovest a 41 cm in quelle centrali. Gran parte dell’acqua piovana penetra nelle falde calcaree e forma canali sotterranei. Quando sgorga dalle rocce, alla sorgente, la Loue ha già quasi la portata di un fiume. La regione è tipicamente carsica, caratterizzata da formazioni calcaree, profonde vallate, grotte e pieghe del terreno. Spesso sugli strati orizzontali di calcare ci sono depositi di marna che permettono all’erba e agli alberi di crescere sulle rocce. Questa formazione – un paesaggio verdissimo, tagliato all’altezza del cielo da uno sbarramento orizzontale di roccia grigia – compare in molti dipinti di Courbet, compreso Il funerale a Ornans. Credo, però, che l’influenza di questo paesaggio e di questo ambiente geologico non abbia agito soltanto sulla composizione scenica dei suoi dipinti.
Per prima cosa cerchiamo di visualizzare la forma delle apparenze propria di un simile paesaggio, in modo da scoprire quali abitudini percettive possa stimolare. A causa delle pieghe del terreno, il paesaggio è alto: il cielo è a grande distanza. Il colore predominante è il verde: su questo verde gli eventi principali sono le rocce. Lo sfondo delle apparenze nella valle è scuro – come se un po’ dell’oscurità delle caverne e dell’acqua sotterranea fosse filtrata in ciò che è visibile.
Da questa oscurità tutto quello che rifrange la luce (il fianco di una roccia, l’acqua che scorre, il grosso ramo di un albero) emerge con una chiarezza brillante, gratuita, eppure parziale (perché molto rimane in ombra). È un luogo dove il visibile è discontinuo. O, per dirla altrimenti, dove il visibile non può essere dato sempre per scontato e va afferrato nell’istante in cui fa la sua comparsa. Non solo l’abbondante selvaggina, ma anche il modo di presentarsi del luogo – dovuto alle sue fitte foreste, ai ripidi pendii, alle cascate, al fiume sinuoso – stimola in noi l’occhio del cacciatore.
Molte di queste caratteristiche le ritroviamo nell’arte di Courbet, perfino quando il soggetto del quadro non è più il paesaggio della sua infanzia. In un numero davvero inconsueto di tele con figure all’aria aperta il cielo è parzialmente o del tutto assente (Gli spaccapietre, Pierre-Joseph Proudhon e i suoi figli,Signorine in riva alla Senna, L’amaca, e gran parte dei dipinti di Bagnanti). La luce è quella obliqua delle foreste, simile alla luce subacquea che gioca brutti tiri alla prospettiva. Ciò che sconcerta nel grande quadro L’atelier del pittoreè che la luce del paesaggio boscoso raffigurato nella tela sul cavalletto sia la stessa che pervade l’affollato studio parigino. Fa eccezione a questa regola generale il dipinto Buongiorno signor Courbet, nel quale il pittore ritrae se stesso e il suo mecenate sullo sfondo del cielo. Si tratta, tuttavia, di un dipinto che il pittore ha coscientemente situato nella lontana pianura di Montpellier.
In una forma o nell’altra direi che l’acqua compare – spesso in primo piano – in circa due terzi dei suoi dipinti. (La casa di campagna in cui era nato sporge sul fiume. L’acqua che scorre deve essere stata una delle prime cose che il pittore ha visto e sentito da bambino.) Quando l’acqua è assente, le forme visibili in primo piano ricordano di frequente le rapide e i mulinelli dei corsi d’acqua (per esempio, Donna con pappagallo, La filatriceaddormentata). La brillantezza laccata degli oggetti, che catturano la luce nelle sue tele, spesso fa pensare alla lucentezza dei ciottoli o dei pesci visti attraverso il velo dell’acqua. La tonalità con cui dipinge una trota sott’acqua è la stessa che si ritrova negli altri suoi dipinti. Ci sono interi paesaggi di Courbet che potrebbero essere paesaggi riflessi in uno stagno, i colori che luccicano sulla superficie, sfidando la prospettiva atmosferica (per esempio, Rocce a Mouthier).
In genere Courbet dipingeva su uno sfondo scuro sul quale stendeva un colore ancora più scuro. La profondità dei suoi dipinti è sempre dovuta all’oscurità – perfino quando, lassù in alto, compare un cielo intensamente blu; in questo, le sue tele fanno pensare a dei pozzi. Ogni volta che una forma si fa strada verso la luce attraverso l’oscurità, egli la definisce applicandovi un colore più chiaro, steso d’abitudine con una spatola. Lasciando per il momento da parte la questione della sua tecnica pittorica, l’azione della spatola riproduceva, come nient’altro avrebbe potuto fare, l’azione di un flusso di luce che passa sulla superficie accidentata di foglie, rocce, erba, un flusso di luce che dà vita e certezza, ma non rivela necessariamente la struttura.
Corrispondenze come queste suggeriscono un’intima relazione tra la pratica pittorica di Courbet e l’ambiente in cui crebbe. Di per sé, tuttavia, non dicono quale fosse il significatoche egli dava alle apparenze. È necessario interrogare più a fondo il paesaggio. Le rocce ne sono la configurazione fondamentale. Gli conferiscono identità, lo mettono a fuoco. È l’affiorare delle rocce che definisce la presenza del paesaggio. Dando al termine la sua piena risonanza metaforica, potremmo parlare di facce rocciose. Le rocce sono il carattere, lo spirito della regione. Proudhon, che era originario della stessa zona, scriveva: «Io sono puro calcare giurassico». Courbet, spaccone come sempre, diceva: «Faccio pensare anche le pietre».
Una parete rocciosa non manca mai. (Pensate al paesaggio del Louvre intitolato Strada alle dieci del mattino.) Domina e si impone allo sguardo, eppure la sua apparenza, per forma e colore, cambia a seconda della luce e del tempo meteorologico. Offre alla vista sfaccettature sempre diverse di sé. Se la paragoniamo a un albero, a un animale, a una persona, le sue apparenze rispettano solo vagamente le regole. Una roccia può somigliare a qualsiasi cosa. È innegabilmente se stessa, eppure la sua sostanza non afferma nessuna forma particolare. Esiste enfaticamente, eppure la sua apparenza (entro quei pochi e amplissimi limiti posti dalla geologia) è arbitraria. È semplicemente quella che è, in questo momento. La sua apparenza è, di fatto, il limite del suo significato.
Crescere circondati da queste rocce significa crescere in una regione in cui il visibile è allo stesso tempo privo di regole e irriducibilmente reale. Esistono dei fatti visivi, ma l’ordine visivo è minimo. Courbet, a detta del suo amico Francis Wey, era capace di dipingere in modo convincente un oggetto – diciamo una catasta di legna, in lontananza – senza sapere cos’era. Un fatto del genere è insolito fra i pittori e, credo, molto significativo.
In Autoritratto con cane nero, un’opera giovanile e romantica, Courbet si raffigurò, avvolto dall’oscurità del mantello e del copricapo, sullo sfondo di un grande masso. In questo quadro il suo volto e la mano sono dipinti esattamente con lo stesso spirito della pietra alle sue spalle. Per Courbet si trattava di fenomeni visivi comparabili, dotati della stessa realtà visiva. Se la visibilità è priva di regole, non esiste alcun ordine gerarchico fra le apparenze. Courbet dipingeva qualsiasi cosa – neve, carne, capelli, pelo, abiti, corteccia – come l’avrebbe dipinta se fosse stata una parete rocciosa. Nulla di ciò che dipingeva ha interiorità – nemmeno, sorprendentemente, la sua copia di un autoritratto di Rembrandt – ma tutto è rappresentato con stupore perché, dove non esistono regole, vedere significa essere costantemente sorpresi.
Si potrebbe avere l’impressione che io tratti Courbet come se fosse «senza tempo», fuori dalla storia come le montagne del Giura che tanta influenza ebbero su di lui. Tutt’altro. Il paesaggio del Giura influenzò la sua pittura nel modo in cui lo fece, data la situazione storica in cui egli svolse la sua attività di pittore, e dato il suo temperamento. Perfino affidandosi a standard temporali giurassici, il Giura avrà «prodotto» un solo Courbet. L’«interpretazione geografica» non fa che ancorare, dare sostanza materiale e visiva, all’interpretazione socio-storica.
È difficile riassumere in poche frasi lo studio acuto e penetrante diTimothyClark su Courbet. L’autore ci restituisce quel periodo politico in tutta la sua complessità. Colloca nel loro contesto le leggende fiorite intorno al pittore: quella del buffone campagnolo con il dono del pennello; quella del pericoloso rivoluzionario; quella del provocatore rozzo, ubriacone e dalla battuta irresistibile. (Probabilmente il ritratto più veritiero e affettuoso di Courbet è quello di Jules Vallès nel suoLe Cri du Peuple.)
E inoltre Clark ci dimostra come nelle grandi opere dei primi anni del decennio 1850-1860 Courbet, con la sua ambizione smodata, il suo odio genuino per la borghesia, la sua esperienza contadina, il suo amore per la teatralità e la sua straordinaria intuizione, fosse impegnato niente meno che in una duplice trasformazione dell’arte del dipingere. Duplice, perché proponeva di modificare tanto i contenuti della pittura quanto il suo pubblico. Per qualche anno Courbet lavorò spinto dall’ideale di riuscire, per la prima volta nella storia, a rendere «popolari» entrambi.
Trasformare significava «impadronirsi» della pittura così com’era, e modificarne l’indirizzo. Credo che Courbet possa essere considerato l’ultimo dei grandi maestri. Egli acquisì la sua prodigiosa abilità studiando le opere dei pittori veneti, di Rembrandt, Velázquez, Zurbarán e altri. Come professionista, restò sempre un tradizionalista. Tuttavia, le tecniche che acquisì, le acquisì senza adottare i valori tradizionali di cui tali tecniche erano al servizio. Potremmo dire che rubò la sua professionalità.
Per esempio: la pratica del nudo, in pittura, era strettamente associata al valore del tatto, del lusso e della ricchezza. Il nudo era un ornamento erotico. Courbet s’impossessò della pratica del nudo e la usò per rappresentare la nudità «volgare» della contadina i cui indumenti sono ammucchiati sull’argine di un fiume. (In seguito, quando sopravvenne la disillusione, anche Courbet dipinse ornamenti erotici come Donnaconpappagallo.)
Per esempio: la pratica del realismo spagnolo del xviisecolo era strettamente associata al principio religioso del valore morale della semplicità e dell’austerità, e della dignità della carità. Courbet s’impossessò del tema e lo usò negliSpaccapietreper rappresentare la disperata, irredenta povertà rurale.
Per esempio: la pratica fiamminga di dipingere ritratti di gruppo in voga nel xviisecolo era un modo di celebrare un certo esprit de corps. Courbetse ne impossessò in Funerale a Ornans per rivelare il collettivo senso di solitudine che si prova di fronte a una tomba.
Solo per qualche anno, dal 1848 al 1856, il cacciatore del Giura, il democratico di campagna e il pittore bandito si incontrarono nello stesso artista per produrre immagini sconvolgenti e uniche. Per questi tre personaggi, le apparenze erano un’esperienza diretta, appena mediata dalle convenzioni, e proprio per questo stupefacente e imprevedibile. La loro visione era concreta (secondo gli oppositori di Courbet, volgare) e innocente (secondo i medesimi detrattori, stupida). Dopo il 1856, durante il declino del Secondo impero, solo il cacciatore produsse di tanto in tanto paesaggi che continuano a non somigliare a nessun altro, paesaggi su cui la neve potrebbe depositarsi.
NelFunerale del 1849-1850 intravediamo qualcosa dello spirito diCourbet, di un unico spirito che, in momenti diversi, era quello del cacciatore, del democratico e del pittore bandito. Nonostante la voglia di vivere, nonostante la proverbiale risata da fanfarone, la sua visione della vita era probabilmente cupa, se non tragica.
Il centro della tela, in tutta la sua lunghezza (circa sei metri e mezzo), è percorso da una zona scura, nera. Formalmente questo nero si spiega con gli abiti della folla in lutto. Ma è troppo pervasivo e troppo profondo – anche ammettendo che con il passare degli anni l’intero dipinto si sia scurito – perché questo ne sia il solo significato. È l’oscurità del paesaggio della valle, della notte che si avvicina e della terra in cui sarà calata la bara. Penso però che questa oscurità avesse anche un significato sociale e personale.
Dalla zona avvolta nell’oscurità emergono i volti dei familiari di Courbet, degli amici e dei conoscenti di Ornans, che il pittore ha ritratto senza idealizzazioni né rancore, senza fare ricorso ad alcuna norma prestabilita. Il dipinto fu giudicato cinico, sacrilego, grossolano. Fu considerato una cospirazione. Ma che cosa implicava questa cospirazione? Un culto dell’orrido? La sovversione sociale? Un attacco alla Chiesa? I critici hanno esaminato invano il dipinto alla ricerca di indizi. Nessuno è riuscito a scoprire l’origine della sua reale sovversione.
Courbet aveva dipinto un gruppo di uomini e donne come appaiono quando partecipano a un funerale di paese, e si era rifiutato di organizzare (armonizzare) queste apparenze in un falso – o perfino vero – significato superiore. Aveva rifiutato la funzione dell’arte come moderatrice delle apparenze, come incaricata di nobilitare il visibile. Aveva invece dipinto, a grandezza naturale su una tela di 21 metri quadrati, un insieme di figure accanto a una fossa, che non annunciano niente fuorché: È così che appariamo. E quanto più chiaro arrivava al pubblico delle gallerie d’arte parigine quell’annuncio proveniente dalla campagna, tanto più questo pubblico si ostinava a negarne la verità, definendola una maligna esagerazione.
Può darsi che in cuor suo Courbet lo avesse previsto; non è escluso che le sue speranze grandiose fossero uno stratagemma che gli dava il coraggio di continuare. L’insistenza con cui dipingeva – inFunerale, Gli spaccapietre, I contadini di Flagey – qualunque cosa emergesse alla luce, attribuendo uguale valore a ogni dettaglio visibile, mi fa pensare che il fondo d’oscurità sulla tela palesasse un’ignoranza radicata. Quando diceva che l’arte è «l’espressione piùcompletadi una cosa esistente», Courbet stava contrapponendo l’arte a qualunque sistema gerarchico o a qualsiasi cultura la cui funzione sia sminuire o negare l’espressione di una vastissima parte di ciò che esiste. Courbet è stato l’unico grande pittore che ha sfidato l’ignoranza deliberata delle persone colte.
(1978)