Esistono scelte i cui effetti sono visibili molto più avanti nel tempo rispetto ad altre, che pesano il futuro proprio e delle generazioni a venire, ma che sono poco allettanti da fare nel presente. Soprattutto in Italia, Paese in cui più che altrove è gradita la famosa massima di Keynes, secondo cui “nel lungo periodo saremo tutti morti”.
Negli anni ‘70 e ‘80, per esempio, l’istruzione avanzata non appariva neanche lontanamente come una priorità. Di lavoro, in fondo, ce n’era, nelle fabbriche e negli uffici (meglio se statali), almeno per coloro che un lavoro lo desideravano. I quali, per inciso, non erano molti, visti i livelli record di inattività soprattutto tra le donne. E se qualcosa di brutto accadeva durante il percorso di carriera, c’era sempre una qualche forma di pensionamento anticipato a risolvere le cose. Anzi, succedeva al di là delle contingenze. All’epoca, infatti, non si era molto consapevoli del fatto che, 30 o 40 anni dopo, la scarsa istruzione dei giovani di allora avrebbe presentato il conto a un intero sistema.
Oggi in Italia la maggioranza assoluta di chi ha tra i 55 e i 64 anni ha solo la licenza media o elementare, o anche meno. In Europa peggio di noi fanno solo il Portogallo, la Spagna e Malta, ma arriviamo comunque dietro alla Grecia e tutti gli altri Paesi. Basti pensare che questa proporzione è del 30,1% nella UE, del 13,9% in Germania, e in ogni caso più bassa che nel nostro Paese anche in luoghi non propriamente avanzati da un punto di vista socio-economico, come Romania o Bulgaria, o tutto l’Est Europa.
Non si tratta solo di una questione di scelta politica del passato. È qualcosa che ha più a che fare con la cultura che con l’economia. È la conseguenza di una mentalità mediterranea che ha sempre visto l’istruzione, il diploma e la laurea come una medaglia prestigiosa per la buona borghesia piuttosto che un investimento da fare per favorire la competitività del Paese.
Le cose con il tempo sono migliorate, ma troppo lentamente.
Se paragoniamo il calo della percentuale di italiani con il grado minore di istruzione con quello avvenuto altrove dal 2000 al 2017, noi siamo, insieme alla Spagna, tra gli ultimi, almeno tra i Paesi maggiori.
In Germania questa proporzione, in 17 anni, si è quasi dimezzata, in Polonia è crollata in misura ancora maggiore.
Non si tratta solo di una curiosità statistica, l’ennesima per crogiolarci nella consapevolezza dell’arretratezza nazionale. Il basso livello di istruzione è tra le cause di tutto ciò che sta accadendo rispetto alla questione dei pensionamenti. Se oggi andiamo in pensione più tardi, è anche perché gran parte dei lavoratori più anziani non avrebbe le competenze per poter iniziare un altro lavoro, se perdesse il proprio. Difatti la proporzione di italiani tra i 55 e i 64 anni che fanno lo stesso lavoro da più di 10 anni è la seconda maggiore in Europa.
Il posto fisso è anche una necessità, oltre che una sicurezza, soprattutto perché la scarsa istruzione rende più difficile riciclarsi in un nuovo lavoro.
Non solo, la mancanza di istruzione superiore è spesso correlata ai lavori più pesanti, meno confortevoli e appaganti, che certo non è un piacere svolgere fino a 70 anni. E spiega in parte anche perché poi siano così tanti, tra quelli questa generazione, coloro che un lavoro non l’hanno mai avuto, cosa che ha reso riforme pensionistiche sempre più dure un passo obbligato, alla perenne ricerca della sostenibilità in un sistema in cui così pochi pagano i contributi per così tanti.
Si tratta quindi di una lezione dal passato che dovremmo imparare. L’importanza dell’educazione. Ciò che ha fatto e sta facendo la differenza in molti Paesi. Basti pensare alla Corea del Sud, ma anche, rimanendo più vicini, alla più elevata istruzione dei lavoratori in Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria. L’istruzione è tra i fattori determinanti della loro veloce crescita, che ancora perdura, e funge da magnete, assieme al vantaggio economico (che però si sta esaurendo), derivante dagli investimenti di grandi aziende e multinazionali.
Per fortuna, nella generazione che una carriera la sta iniziando oggi, il calo del numero di persone con livelli di istruzione più bassi è stato un po’ più veloce, e certo maggiore di quello verificatosi in Spagna o Germania, per esempio. Dove non era arrivata l’azione dello Stato tra gli anni ‘60 e ‘80, è giunto il benessere e il desiderio di fare raggiungere ai figli traguardi più alti nel periodo tra la fine degli anni ‘80 e il primo decennio del 2000.
Solo che oggi non basta più andare oltre la licenza media. Rimaniamo tra i Paesi con meno laureati, non solo nella popolazione generale, ma anche tra i più giovani.
La sfida da vincere, l’errore da non ripetere, è sempre lo stesso: elevare l’istruzione di chi entra nel mondo del lavoro. È ciò che ci consentirà, tra trent’anni, di non ritrovarci nella stessa palude di oggi, fatta di bassa occupazione, produttività stagnante, competenze insufficienti e poco spendibili, con pochi lavoratori che, con i magri contributi derivanti da scarsi stipendi, devono sostenere pensioni che, per quanto più ridotte, dovranno essere pagate a tutti. Anche quando l’illusione di quota 100 sarà finita.