Dunque, la questione funziona più o meno così. Bisogna evitare che venga ristabilito un vero confine tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, con relative dogane, grande incazzatura degli uni come degli altri e tensioni in un’area che di tensioni ne ha vissute fin troppe. Così, nella bozza di accordo per la Brexit che la premier May vorrebbe sottoscrivere con la Ue (e che il Parlamento inglese voterà l’11 dicembre), è stata inserita una clausola che prevede la permanenza del Regno Unito in una forma di unione doganale con la Ue. Roba che i puristi della Brexit (tipo la sequela di ministri che si sono finora dimessi) non possono accettare e che li spingerebbe a votare contro la May. C’è un’alternativa: il Regno se ne va comunque ma Disunito, nel senso che l’Irlanda del Nord resta comunque nell’unione doganale con la Ue e si mette a trattare Londra come la capitale di un Paese terzo. Cioè, un Paese qualunque. Roba che fa drizzare i capelli a quelli del Dup (il partito unionista nordirlandese), che è alleato della May ma a questo punto potrebbe votarle contro.
Ora, dei patemi della vispa Theresa non importa a nessuno. Ma in questa vicenda c’è una lezione che riguarda tutti noi europei. Ed è questa. La Brexit, ovvero l’uscita dall’Unione Europea, è una questione complicatissima. Andarsene non è né giusto né sbagliato in sé, ma presenta una serie di problemi da risolvere che sono un enorme mal di pancia. Tipo appunto quello dell’Irlanda del Nord.
La lezione sta nel fatto che la sciocchezza delle sciocchezze non è stato immaginare la Brexit ma realizzarla attraverso un referendum a maggioranza semplice, cioè con lo strumento politico più rozzo che esista
Il Regno Unito, per di più, paga lo scotto di essere il primo Paese a provarci. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nemmeno i protagonisti come la May sanno esattamente che cosa fare e si acconciano a correre qua e là inseguendo l’emergenza di turno. Per non parlare di economisti, politologi, esperti di ogni genere e razza e giornalisti, equamente divisi tra catastrofisti (ah, come se ne pentiranno) e ottimisti (visto, l’economia va benissimo) per la semplice ragione che nessuno, giustamente, ha idea di come andrà davvero a finire. Se così non fosse, basterebbe mettere uno di loro al posto della May è il gioco sarebbe fatto.
E la lezione? La lezione sta nel fatto che la sciocchezza delle sciocchezze non è stato immaginare la Brexit ma realizzarla attraverso un referendum a maggioranza semplice, cioè con lo strumento politico più rozzo che esista. Come riparare un cronometro con un martello oppure operare di appendicite con una sega.
Come si può affidare una questione così tecnica e complessa al cinquanta più uno? Come imboccare una strada così piena di incognite via una consultazione tanto influenzabile, in un senso come nell’altro, da emozioni, distorsioni, convinzione errate, pregiudizi e vere balle? Senza possibilità di verifica, se non di correzione? Con il parere di chi aveva lavorato con l’Europa, magari avendone misurato tutte le insufficienze, o di chi operava sui mercati internazionali, equiparato di fatto a quello del pensionato arrabbiato col mondo?
Qui c’è tutto il dramma della democrazia diretta. Piace, perché fa sentire importante ogni singolo cittadino e riesce a mobilitarlo prima ancora che diventi elettore, e non è poco. Ma quando si realizza, deve per forza acconciarsi al compromesso, alla trattativa, al cabotaggio. E di questo si vergogna, come se la trattativa e il compromesso non fossero l’essenza stessa della politica. E il cittadino si mostra deluso, protesta, si allontana. Qualunque riferimento alla situazione italiana è del tutto voluto.
L’eccesso di democrazia diretta si scarica sia su chi governa sia su chi è governato. Chi arriva al governo dopo aver raccontato che tutto è “si” o “no”, poi fatica a raccontare i “forse”, a spiegare gli “anche”, a giustificare i “quasi” che sono immancabili nella politica
La controprova, se volete, viene dallo stesso Regno Unito e dalla Francia. La Brexit è stata resa possibile da quel salame dell’ex premier David Cameron che, dopo essere stato il secondo leader conservatore dopo la Thatcher a essere riconfermato primo ministro in seguito a un primo mandato di cinque anni, ebbe la brillante idea di lanciare il referendum, convinto di vincerlo. E invece lo perse. Anche Emmanuel Macron, in Francia, ha ottenuto un successo plebiscitario di tipo populista, mettendosi alla testa di un movimento e non di un partito, raccogliendo consensi trasversali apolitici o prepolitici, volando all’Eliseo e trascinando con sé una grande maggioranza parlamentare. Ma adesso stenta persino ad andare in giro per la Francia, tanto è lo scontento che ha generato. E i gilet gialli per poco non vanno a prenderlo a casa.
L’una e l’altra vicenda ci dicono che l’eccesso di democrazia diretta si scarica sia su chi governa sia su chi è governato. Chi arriva al governo dopo aver raccontato che tutto è “si” o “no”, poi fatica a raccontare i “forse”, a spiegare gli “anche”, a giustificare i “quasi” che sono immancabili nella politica che ambisce a intervenire sul reale. E chi ha creduto a questa narrazione, cioè il cittadino, si ritrova poi investito di una responsabilità enorme quando si accorge che qualcosa non funziona. Quella di far uscire il Regno Unito dall’Europa comunitaria, per esempio. O di prendere di nuovo d’assalto la Bastiglia se il “suo” Presidente lo massacra di tasse, tagli e aumenti.
Ci vorrebbe un amico, come cantava il poeta. Quegli amici che facevano gli interessi sia dei governanti sia dei governati mettendosi di mezzo, commentando, consigliando, mediando. Ci vorrebbero insomma i sindacati, i partiti, gli intellettuali, le scuole di partito, tante belle cose che c’erano una volta e non ci sono più. Le madamin si-Tav di Torino e i gilet gialli fanno tanta impressione proprio perché tra vertice e base c’è troppo spazio vuoto. Nessuna nostalgia, il mondo cambia e noi con lui. Ma il problema c’è e bisognerebbe essere ciechi per non vederlo.