L’intervistaMark Cousins: “Attenzione al potere delle immagini: è da lì che passa il populismo”

Chiacchierata a tutto campo con lo scrittore e regista irlandese: “Lo sguardo, il contatto visivo plasmano la realtà che ci circonda, e ci condizionano. Il vostro populismo è di tipo visuale, l’Italia è terra di scontro tra immagini. E Salvini l’ha capito benissimo”

I semiologi fanno sempre sentire un po’ cretini, specie quelli francesi. Fortunatamente Mark Cousins non è né un semiologo né francese, ma un regista – suo il monumentale documentario The Story of Film, produttore, critico e scrittore irlandese. Di più: un dilettante irlandese. Un dilettante erudito, refrattario verso ogni forma di accademismo («le accademie mi rendono sospettoso»), che dirige film e scrive libri sulla spinta di un diletto programmaticamente infunzionale e proprio perciò funzionale. All’indomani della scomparsa di John Berger, fra i pochi capaci di spiegare la fenomenologia dello sguardo senza toni da pastori luterani, il tavolo delle cosiddette visual culturescadde sotto il peso di lanugini ombelicali di semiologi strappati dall’ufficio catasto.

A rimettere in piedi il tavolo interviene Mark Cousins, che a scuola ci andava malvolentieri. The story of Looking Storia dello sguardo nella traduzione di il Saggiatore – ricolloca al centro il diletto di guardare un’immagine e di bagnarsi i piedi nel mare, anche quando in atto c’è una tempesta di lucreziana memoria. Diletto, questo sconosciuto. Da ragazzino aveva difficoltà a leggere, dice di averne ancora, ciò non gli ha impedito di produrre quasi 600 pagine in pieno stile anti-accademico che ripercorrono la storia di cosa è stato guardato, e di chi ha guardato, montando capitoli e immagini quasi si trattasse di un film. O piuttosto di qualcosa «in movimento, come ogni cosa dovrebbe essere, da godere in movimento», non di un libro.

In piena guerra mondiale Alberto Savinio scrisse che «la sola mente europea è così matura da riconoscere il dilettantismo come soluzione al problema della vita. Così saggia da riconoscere che la vita non è un problema». In piena sovraesposizione voyeurista Mark Cousins è così genuinamente dilettante da riconoscere l’immagine come soluzione al problema della vita. Così saggio da riconoscere che lo sguardo non è mai un problema, e neppure responsabile del potere di un’immagine, anche quando riporta una Selene Ticchi D’Urso qualunque con indosso la maglietta di ‘Auschwitzland’.

Cosa le piace di questa stanza?
Le canne di bambù, curioso che in un angolo così ottocentesco di Milano ci sia un richiamo al Giappone. Mi è piaciuto anche lo Spritz.

Nell’introduzione al libro manifesta una certa insofferenza nei confronti delle accademie.
Sì. Non conosco un solo testo dei cosiddetti ‘imprescindibili’ che contenga nozioni e autori orientali o africani, non è strano? Virginia Woolf ha studiato l’azione del guardare meglio di tanti accademici, tanto vale leggersi lei. In generale rimango sospettoso verso chi cerca di darmi un’opinione sulle cose.

Denis Diderot finì in carcere per avere scritto Lettera sui ciechi, a tal punto la sua opinione era rivoluzionaria.
Lui è l’esempio di come un pensiero anti-accademico abbia la stessa dignità dell’accademia, e nel libro lo cito spesso. Mi piace molto lui, l’utilizzo che faceva delle biblioteche, il modo con cui rinnovò il sapere sparpagliato nelle biblioteche per renderlo qualcosa di vivo, e la relazione che intrattenne con Caterina di Russia. Credo che amasse semplicemente la vita, le persone come lui, John Berger e Roland Barthes mi piacciono.

Scrive anche che da ragazzo era lento nella lettura. Perché?
Lo sono tutt’ora. Per afferrare i segni ho bisogno di tradurli letteralmente in immagini, per me una frase acquista significato solo una volta visualizzata. Il motivo credo sia sociale, di educazione, com’è la lettura, anche mio padre era così. Come molti bambini bilanciavo le mie abilità, terribile a leggere, piuttosto bravo in altro. La situazione non è cambiata.

Quindi guardare è più naturale che leggere?
Sì, è un’azione primitiva. Nel cervello la corteccia cerebrale preposta alla vista è più profonda rispetto a quella della lettura.

Primitiva ma non semplice, altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di un libro sullo sguardo.
Le faccio un esempio. Venendo qui ho visto un mendicante. Sono tornato indietro per dargli dei soldi solo dopo essermi ricordato dei suoi occhi, quelli li avevo guardati, non visti, ma me ne sono accorto dopo. Come ogni cosa, lo sguardo si impasta con la cultura, con il tempo e la memoria. Per niente semplice. Ma l’elettricità del contatto visivo è ciò che più dà la sensazione di stare vivendo.

A proposito di soldi, si discute molto del copyright delle immagini. Qual è la sua posizione al riguardo?
Penso che la gratuità delle immagini non sia un valore assoluto ma da relativizzare. Nel Paesi poveri è giusto che l’accesso alle immagini sia gratuito, nei Paesi occidentali, in generale, non vedo perché non pagare il copyright, fatta eccezione per chi è povero. Come stabilire chi lo è davvero è poi altra questione.

Nel paragrafo dedicato alla propaganda scrive che di fronte a qualsiasi immagine «basta farsi una una semplice domanda: è una menzogna?». Come riconoscere la menzogna? È un po’ difficile.
Finito di ammirare la bellezza di una cattedrale mi chiedo sempre: dove mi sta ingannando? Che intenti manipolatori mette in atto? Il Vaticano, attraverso questa cattedrale, mi sta mentendo su qualcosa? La difficoltà della risposte conferma l’importanza delle domande, anche di fronte a manipolazioni più raffinate come quelle tecnologiche.

La tecnologia ci rende più o meno creativi rispetto al passato?
Il registratore che ha in mano plasma il modo in cui stiamo conversando, la voce, la distanza, ciò che siamo disposti a dirci, quello che trascriverà, e come verrà recepito dal lettore del giornale per cui lavora. Così come la videocamera portatile ha cambiato il mio modo di fare film, non solo su un piano formale – viaggio alleggerito e riprendo con più agilità – ma sul piano dei contenuti. Con la tecnologia i miei film sono diventati più intimi, personali. La tecnologia rende più creativo non soltanto il singolo gesto, ma i passaggi da un gesto all’altro.

Certo.

Il populismo italiano è di tipo visuale. Per secoli in Italia si sono avvicendati potere temporale e potere imperiale, due potenze agli antipodi, ognuna con un proprio immaginario da difendere. All’interno di questa dialettica l’Italia è stata terra di scontro visuale, è anche per questo che siete così bravi con le immagini

Il migliore regista italiano in circolo?
Alice Rohrwacher, superlativa. Mi piace anche Michelangelo Frammartino, Le quattro volte è un film fantastico.

Anche i politici ora più che parlare scattano foto e girano video.
Conoscono il potere che l’immagine ha di eludere le riserve razionali e arrivare dritto alla parte irrazionale. L’immagine poi si presta meglio a catturare il sogno, il desiderio degli elettori. È anzitutto sulla spinta dei propri sogni che gli elettori si emozionano di fronte a un politico, non tanto per i suoi discorsi. La componente immaginifica delle foto dei politici è potentissima, il marketing negli ultimi dieci anni si è evoluto più degli altri settori.

L’anno scorso la foto dell’attentatore di Ankara con in mano la pistola e a terra il corpo dell’ambasciatore morto ha vinto il premio fotogiornalistico “World Press Photo”. Sono immorale se dico che quella foto è semplicemente, esteticamente bella?
No, l’estetica stimola diverse parti del cervello, contraddittorie solo in apparenza.

Come conciliare l’estetica e l’etica?
Credo che l’estetica sia anzitutto capacità di astrazione. Più conosciamo le cose e meno rimaniamo sorpresi dal trovare un contraddittorio o un consenso rispetto al cortocircuito tra l’estetica e l’etica, spesso confusa con la morale. Conosco Roman Polański e credo che alcuni suoi film siano straordinari. Quando ho saputo delle aggressioni sessuali a danno di svariate donne ho deciso di allontanarmi dalla sua persona, ci sono altri registi con cui collaborare, continuando a riconoscergli un immaginario straordinario, senza cercare conferme o contraddizioni tra i suoi film e la sua vita privata.

Cosa pensa del movimento #MeToo?
È una buona cosa, lo supporto a pieno. Le donne che hanno trovato sostegno nel movimento sono quelle di cui non si ricorda il nome perché persone ordinarie, è a loro che bisogna dare ascolto. Se per farlo si usa la voce di un nome famoso, ben venga. Io non dovrei dare per scontato che lei non abbia una storia, così come lei non dovrebbe farlo con me. È semplice. Per una donna magari non bianca, non ricca, lo è meno.

In Italia, più che altrove, si è rischiato di focalizzarsi più su “chi” parlava che su “cosa” diceva.
Non lo sapevo, è una cosa triste. Interessante la questione della diversa importanza del chi e del cosa nei diversi Paesi, ci rifletterò.

Vorrei mostrarle una foto scattata in Italia e avere un suo commento.

Oh my f****** God.

Qualcosa in più?
È della Lega?

No, di un partito più di destra, Forza Nuova.
Provo repulsione. Non conosco l’educazione di questa donna ma credo che non abbia la minima idea di Auschwitz. Credo che non realizzi nemmeno che è esistito davvero, al di là della narrazione. Non è comunque una giustificazione. Stanno tornando le correnti neo-naziste degli anni ’90. Ricordo quegli anni, molti volevano ribellarsi alla società, alcuni cercavano solo un modo di dare fastidio agli altri, e diventarono nazisti. Ci sono poi nazisti che non provengono dal basso e dalla strada, ma lo diventano per fascinazioni estetiche, senza propositi etici o morali, come si diceva prima, veda l’esempio di James Dean.

La donna si è giustificata dicendo di avere indossato la maglietta senza intenzioni particolari. Cos’è, black humour?
Non credo l’abbia indossata con l’intento di far ridere. Se lo ha fatto per humour, la condanno con più tristezza. Molti pensano che l’ironia sia la forma più sofisticata dell’intelligenza. Non sono d’accordo.

Se io fossi una bambina, con quali immagini mi spiegherebbe il populismo?
Bella domanda. Dipende dall’età.

8-10 anni.
È un’ottima età. La migliore per sviluppare le proprie abilità ed elaborare gli stimoli esterni. Lo pensa anche Tilda Swinton. Ma deve dire di che nazionalità però.

Perché?
Ogni nazione sviluppa un proprio populismo idiosincratico. Il populismo ucraino ad esempio è più verbale che visuale, diversissimo da quello americano, da quello inglese, eccetera.

Diciamo di nazionalità italiana.
Avete avuto Mussolini, non dovrebbe essere difficile. Le farei una premessa: non si capisce il populismo su un piano sincronico, è necessario osservarlo nelle sue fasi. Poi le mostrerei immagini dell’Italia, diciamo da inizio Novecento fino agli anni Trenta, semplicemente accostando foto di archivio con immagini e foto di propaganda, secondo il metodo classico di Ėjzenštejn. Per spiegarle il populismo di oggi invece userei immagini dei media, immagini che riportano i discorsi di Salvini, e foto di genitori o amici di rifugiati rimasti nella terra d’origine. Le mostrerei cosa il rifugiato lascia alle spalle.

Conosce Salvini.
Il mito dell’uomo forte, che impersonifica molto bene, lo ha reso famoso. Il populismo italiano è di tipo visuale. Per secoli in Italia si sono avvicendati potere temporale e potere imperiale, due potenze agli antipodi, ognuna con un proprio immaginario da difendere. All’interno di questa dialettica l’Italia è stata terra di scontro visuale, è anche per questo che siete così bravi con le immagini.

L’ultima volta che ha pianto?
Piango abbastanza spesso, a volte senza motivo. L’ultima volta è stata qualche giorno fa, per commozione. La bontà mi commuove, e mi ci imbatto spesso perché viaggio molto. Tutti dovrebbero viaggiare, specie i politici. Sono stato in Paesi devastati dalla guerra, come l’Iraq, dove il 17% della popolazione è morta in un giorno. Una persona su cinque, nell’arco di 24 ore. Nonostante ciò, chi rimane non si accontenta di sopravvivere. Vive, si aiuta a vicenda, nutre ambizioni, perfino. È toccante. Lei quando ha pianto l’ultima volta?

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