Per Marco Minniti sono giornate difficili. Fiaccato nel fisico (a causa di una fastidiosa lombo-sciatalgia) e nel morale, la corsa dell’ex ministro dell’Interno verso la segreteria del Pd si fa sempre più in bilico. Sono le 18 di lunedì 4 dicembre, otto giorni appena alla scadenza per la presentazione delle candidature per il congresso dem. Le agenzie battono, in rapida sequenza, tre o quattro lanci che gettano una buona fetta del partito nello sconcerto: “Minniti tentato dal ritiro”. La voce era nell’aria da alcuni giorni ma, nelle ultime ore, ha trovato conferma in ambienti vicini all’ex titolare del Viminale.
Il motivo? È presto detto. La candidatura non decolla perché, secondo l’entourage del deputato originario di Reggio Calabria, chi lo doveva sostenere non sta adeguatamente mobilitando le sue truppe. Ancora una volta, il problema ha un nome e un cognome precisi: Matteo Renzi. Le ambiguità del “senatore semplice di Scandicci” sul futuro suo e del Pd stanno fiaccando l’attivismo di chi aveva promesso che avrebbe lavorato giorno e notte per portare avanti la candidatura di Minniti. I due si sono sentiti, pochi giorni fa, ma non sono riusciti a trovare la quadra. L’ex titolare del Viminale, uomo che ama mostrare il proprio lato sicuro e inflessibile, è invece disorientato dal comportamento di Renzi. Che prima ha esercitato un pressing asfissiante per spingerlo a candidarsi (tanto che in principio il problema era il “cappello” renziano sul nome di Minniti) e poi l’ha abbandonato al proprio destino, non perdendo occasione per parlare del congresso del Pd come di una cosa lontana anni luce dai suoi attuali interessi.
«Non ci sto a fare la foglia di fico di Renzi che vuole uscire dal partito», avrebbe confessato ai suoi Minniti, costretto ad assistere all’attivismo internazionale dell’ex premier, che vola a Bruxelles per incontrare Timmermans e Vestager, e che, tramite i suoi più stretti collaboratori, da Gozi a Scalfarotto, lavora alla creazione di una struttura parallela al Pd, che poggia sull’architrave costituita dai comitati civici “lepoldini”. Il timore di Minniti è quello di essere stato usato dall’ex segretario per far saltare il Pd. La sua candidatura, infatti, spinta dalla famosa lettera dei sindaci che porta la prima firma del renziano Matteo Ricci, potrebbe far sì che nessuno dei nomi in lizza per la segreteria raggiunga il 50 per cento più uno dei voti necessari per essere eletto alle primarie, obbligando l’assemblea a rischiosissimi accordi tra le fazioni di un Pd balcanizzato. Uno sgambetto a Nicola Zingaretti, che sentiva la vittoria e la leadership già in tasca.
Ma dal giorno dopo la discesa in campo di Minniti, Renzi ha ostentato disinteresse, mandando ai suoi un messaggio decisamente ambiguo. E tutti i sospetti dell’ex ministro – che lo avevano fatto tentennare nei giorni che si era preso per sciogliere la riserva – sono stati confermati. Così come la decisione di Maurizio Martina di scendere in campo, sostenuto da una grossa fetta di quello che fu lo stato maggiore renziano e, in ultimo, dallo stesso Matteo Richetti che ha deciso di convergere su di lui. Minniti ha visto quello che doveva essere il suo fronte sbriciolarsi a poco a poco.
In queste ore di riflessione, si attende una parola chiara da parte di Renzi. L’ex rottamatore non ha mai ufficialmente smentito tutto ciò che si scrive (da mesi) su una sua possibile uscita dal partito, in cerca di nuovi lidi liberal-centristi. Ha detto che non ha intenzione di fare un nuovo partito con Berlusconi, ma non ha mai escluso che l’approdo del percorso intrapreso nelle ultime settimane sia fuori dal Pd.
In queste ore di riflessione, si attende una parola chiara da parte di Renzi. L’ex rottamatore non ha mai ufficialmente smentito tutto ciò che si scrive (da mesi) su una sua possibile uscita dal partito, in cerca di nuovi lidi liberal-centristi. Ha detto che non ha intenzione di fare un nuovo partito con Berlusconi, ma non ha mai escluso che l’approdo del percorso intrapreso nelle ultime settimane sia fuori dal Pd. Uomini molto vicino a lui, anzi, a cominciare proprio dall’ex sottosegretario Sandro Gozi, suo sherpa personale in Europa assunto come consulente dal gruppo del Senato, non ha mai nascosto la volontà di andare oltre il Pd. Minniti ora aspetta un segnale. O Renzi sgombra il campo dagli equivoci e dai dubbi, o non se ne fa più niente. «Anche perché – dicono i suoi – a differenza del senatore fiorentino, che potrebbe cavalcare un ulteriore arretramento in termini percentuali, lui non ha alcun interesse a vedere il Pd fallire l’appuntamento elettorale europeo».
Ma il segnale non lo aspetta solo Minniti. La galassia renziana è in subbuglio. Non sono poi in tanti quelli disposti a seguirlo nelle sue avventure. «Un eventuale nuovo partito di Renzi – dicono al Nazareno – non arriverebbe alla doppia cifra neanche a pagare oro e quindi avrebbe ben pochi posti da promettere ai fedelissimi». Non è un caso che chi si sta prodigando di più per convincere Minniti a restare in campo siano due renziani doc, come Lorenzo Guerini e, soprattutto, Luca Lotti, il quale viene già dato in avvicinamento a Martina nel caso in cui l’obiettivo fallisse. Un segnale che indica, a sua volta, come il fronte legato all’ex segretario rischi di esplodere. “Teniamoci stretto il Pd”, scrive oggi sull’house organ Democratica un altro turborenziano come Andrea Romano. Un appello molto più in linea con quanto sostenuto ultimamente da personalità come Paolo Gentiloni, piuttosto che dallo stesso Renzi.
Sono ore decisive, dunque, non solo per il futuro di Minniti ma per il futuro del Pd. Un partito che rischia seriamente di liquefarsi a pochi mesi dall’appuntamento elettorale più importante della storia recente. «Questa cosa del congresso sarà molto difficile da superare», spiega un ex renziano di ferro.«Il problema rimane sempre e solo uno: Matteo non accetterà mai di fare il numero due. Non l’ha mai accettato, fin dai tempi della prima sfida con Bersani, e non lo farà mai».