Il bastone. Tom Wolfe ha creato il New Journalism, Hunter S. Thompson ha battezzato il Gonzo Journalism, Beppe Severgnini può essere fiero – si fa per dire – di aver inventato il “giornalismo coccoloso”. La regola generale del “giornalismo coccoloso” è parlare genericamente di tutto – contano le opinioni, mica i fatti; vince l’ironia, mica il dato, dato per scontato – senza offendere nessuno. La regola particolare del “giornalismo coccoloso” è parlare bene dei propri superiori – Indro Montanelli, in marmo, maestro inafferrabile; “Di Paolo Mieli ho apprezzato altre cose, e adesso le posso dire”, e noi possiamo educatamente girare pagina, c’importa nulla; “Una cosa ho sempre ammirato di Ferruccio: la capacità di ascoltare e consigliare”: in questo caso Ferruccio non è il cane di Beppe né lo zio rimbambito, ma Ferruccio de Bortoli – e parlare bene, soprattutto, pacatamente e modestamente, del proprio giornale (“Se il nuovo 7 funziona – e funziona – il merito è del gruppo che abbiamo messo insieme”: badate gente, l’egotista fa sempre un elogio del gruppo per indorare se stesso). La regola microscopica del “giornalismo coccoloso” è, in ogni caso, parlare sempre e soltanto di sé, del proprio ego velatamente tracotante. Insomma, il “giornalismo coccoloso” è un ben dosato cocktail che mescola ginnico leccaculaggio a narcisismo inappetente. Di certo, l’ultimo libro di Beppe Severgnini – titolo fuorviante, Italiani si rimane, ma qui di Italia, italiani e italianità non si parla, si parla soltanto di lui, Beppe il coccolino – inaugura un nuovo ‘genere’ editoriale. Provo a definirlo così, tutto d’un fiato. Il giornale (Corriere della Sera) che incarica il proprio giornalista di grido di scrivere per la casa editrice di casa propria (Solferino) un libro autobiografico utile a sponsorizzare l’inserto diretto dal giornalista di grido, che sfacciato (7, appunto, a cui sono dedicate pagine e un invito all’acquisto: “Leggete con attenzione il ‘Corriere’ – magari un giovedì, aggiungendo 7!”). Insomma: una marchetta fatta in casa, un super confetto conficcato nel condotto esofageo del lettore pagante. Il libro-manifesto del “giornalismo coccoloso”, di per sé più simile a un peluche da spulciare che a un tomo da sfogliare, impila una serie di irritanti sentenze. Ne riassumo alcune:
- La battuta più brutta letta nell’ultimo lustro: per parlare dei canguri che ha visto in Australia (novità!) Severgnini scrive: “stavano sul ciglio della strada e avevano lo sguardo di D’Alema quando passa Renzi: perplesso e leggermente contrariato”;
- La retorica barbara sull’imperiale Indro Montanelli e gli allori, imbarazzanti, intorno al Corriere della Sera il quotidiano più prestigioso della stampa patria (con esiti grotteschi: “Se lo ricordi, chi comanda in Italia. È solo di turno. Passerà. Il Corriere della Sera resta”). Palle. Il giornalismo è bello finché ci sono maestri degni di essere mangiati in salsa piccante e superati; il giornalismo è bello finché si inventa ogni giorno, senza diventare il mausoleo del tempo perduto (e per alcuni del tempo perso, che andrebbe speso a fare altro);
- La ramanzina sul futuro del giornalismo e l’elogio morboso del giornale di carta (con ovvio messaggio pubblicitario: comprate il ‘Corrierone’, “Stupirete gli amici, sarete stupiti voi stessi. Vi renderete conto di essere informati, di sapere le cose”). Tutte muscolari idiozie: il giornalismo vince se ha la forza di andare contromano, contro il mondo – narrandolo – contro tutti – adorandoli con compassione, in onesta ferocia. Ad ogni modo, leggete Dostoevskij, Kafka e Cioran e Canetti e tanto altro prima di comprare il Corriere della Sera;
- L’autobiografismo – per altro, ammesso da Beppe chiomabianca: “Qual è il mio unico libro? Un’autobiografia a puntate… Cerco di trovare, nel racconto della mia vita, qualcosa che possa essere utile ad altri”. Insomma, cosa ha fatto Severgnini nella sua vita? Il giornalista. Il giornalista fortunato. Da giornalista, non ha avuto il talento di Dino Buzzati (leggi sotto) né la grazia inquieta di Enrico Emanuelli né l’ansia verbale di Brera. È stato semplicemente Beppe Severgnini, sai cosa c’importa della sua vita… Nulla. Non è stato Napoleone né Victor Hugo, non ha scritto nulla di paragonabile a Mario Luzi o a Mario Pomilio. Vorremmo sapere voluttuose verità – o amabili menzogne – su Putin, leggere l’autobiografia di un tiranno africano o le memorie viziose di Angela Merkel, che ha fatto Severgnini per meritare la nostra attenzione?
Basta leggere l’Indice dei nomi, comunque, per farsi una idea dell’egolatria glossolalica di Severgnini: ma cosa significa stilare un Indice dei nomi in un libro svagato, e svalvolato come questo, non siamo mica al cospetto degli Annali di Tacito, dei quaderni di Basilio II il ‘Bulgaroctono’, dei pizzini di Stalin? Nel pudding verbale di Severgnini nulla si distrugge, tutto si trasforma, Monica Bellucci sta insieme a Ludwig van Beethoven, Platone con Pinochet, Leopardi con Linus, d’altronde il giornalismo – poer alcuni – è scrivere un po’ di tutto senza sapere nulla di certo. È la regola del “giornalismo coccoloso”, baby: ciò che hai letto è lucidamente inutile; però, magari, se non hai altro da fare, ti diverti. Io no, io, nel mio piccolo, mi incazzo.
Beppe Severgnini, Italiani si rimane, Solferino 2018, pp.280, euro 17,50
La carota. Si diceva, un titolo fuorviante. Più che Italiani si rimane il libro di Beppe avrebbe dovuto titolarsi “Severgnini per sempre”: siamo d’accordo, il titolo è uno specchio per le allodole, ma qui non siamo tutti allocchi. Quando parla del Paese, infatti, Severgini parla soltanto del paese suo – Crema – e lo fa per rimembrare i primi vagiti – comincia a La Provincia di Cremona – di una carriera ruggente e raggiante. Oppure per far promozione all’attività del figlio, Antonio, che “ha resuscitato una proprietà di famiglia a lungo trascurata” traducendola in “un bar-ristorante… si chiama Lago del Serio, quel posto magnifico, e l’ha creato lui”. Il problema di Severgnini, dunque, è doppio. Primo: non sa raccontare nulla oltre il proprio ego. Secondo: quello che racconta lo racconta male. Per risolvere il primo problema basta sostituire Severgnini con Michele Brambilla, giornalista di valore – già vicedirettore di Libero, de il Giornale e de La Stampa – direttore della Gazzetta di Parma, che per La Vita Felice ha raccolto i “racconti di provincia” scritti nell’estate del 2012 per La Stampa. Il libro, dal titolo folgorante – Non ci sono più i cornuti di una volta – è delizioso per come è scritto – pura sapienza giornalistica: tanti dati e in dote una certa verve narrativa – e commovente per cosa c’è scritto. La provincia resta, certo, “luogo dell’anima ancor prima che geografico; con le sue storie tramandate di generazione in generazione, le sue virtù esibite, i suoi vizi nascosti, i suoi intrighi amorosi, le sue apparentemente modeste ambizioni”, ma è irrimediabilmente tarlata da un’era che azzera i campanili: un tempo terra di briganti e di avventurieri dell’imprenditoria, ora la provincia pare una zolla di tedio tagliata fuori dai raggi del sol dell’avvenire – i geniacci vengono ancora da lì, ma devono provarsi e farsi grandi in città, mi diceva, chiacchierando, Brambilla. I reportage in forma di racconto, comunque, sono giornalisticamente salutari. L’incipit che apre il ‘pezzo’ scelto a titolo della raccolta è esemplare: “Si crapula e si copula ancora a Treviso, ma non ci sono più quei bei pettegolezzi di una volta. Un’era geologica sembra trascorsa da Signore e Signori, il capolavoro di Pietro Germi che vinse il festival di Cannes nel 1966 e che alzava il velo sui vizi privati di una provincia italiana che gozzovigliava e fornicava con riservatezza”. Quanto al secondo problema di Severgnini – non sa scrivere, cronicamente ancorato a una ironia biliosa – lo si risolve risollevandosi con la lettura di Dino Buzzati (citato da Beppe lo stesso numero di volte di Tony Blair, decisamente meno di quanto è citato Silvio Berlusconi). È sufficiente leggere un articolo soltanto, s’intitola Era un uomo semplice, è semplicemente perfetto, fu pubblico sul Corriere d’Informazione il 6 gennaio 1960, lo trovate nel ‘Meridiano’ Mondadori che raccoglie le Opere scelte di Buzzati. Diciamo che è il ‘coccodrillo’ per scarrozzare Albert Camus nel regno dei morti. Buzzati sceglie un modo inconsueto e geniale per onorare lo scrittore francese. Racconta il giorno in cui lo ha conosciuto, a Parigi, andava in scena un suo testo teatrale tradotto e ridotto da Camus. Buzzati – per farci sentire Camus davanti al naso – gioca a minimizzarsi, a umiliarsi (“Mi sentivo un verme, il provinciale classico piombato nella Ville Lumière, proprio a contatto con uno dei suoi maggiori lumi”; “dovevo aver l’aria di un perfetto cretino”; “Ma come?, io immaginai che lui pensasse, Come è possibile che io abbia tradotto una commedia di un ebete simile?”). Lo sketch con cui chiude il pezzo è stellato Finita la ‘prima’, si fa festa, “a una certa ora, congedatisi pezzi grossi e critici… misero su dei dischi”. Albert Camus è scatenato, balla, “un ballo dietro l’altro, con allegria di ventenne. La filosofia?, i grandi problemi dell’uomo?, il dramma delle comunità moderne?, la nostra eterna condanna alla solitudine? Quella sera, almeno, Camus fu felice di essere al mondo. Era vestito di blu”. Il genio giornalistico decide di mostrarci il cantore dell’assurdo assurdamente felice; il grande narratore trova quella frase, spiazzante, spaziosa, speciale, “Era vestito di blu”, che dice ogni profondità, accompagna Camus sulla chiatta di Caronte, con commovente eleganza.
Michele Brambilla, Non ci sono più i cornuti di una volta e altri racconti di provincia, La Vita Felice, pp.76, euro 8,00