Appartengo alla generazione per cui «virale» era ancora un termine medico ed evocava qualcosa di serio e preoccupante, e secondo me tale doveva restare. Chi ha meno di trent’anni crede che «virale» esista solo in contesti digitali e social, e se gli parlano dei pericoli dell’epatite virale crede si tratti di un meme e non di una brutta malattia, e corre ad aprire Facebook anziché disinfettarsi le mani. Sento già qualcuno gridare «spirito di Massimo Gramellini, esci da questa donna», e avrebbe pure le sue ragioni.
Ma c’è poco da fare: hashtag virali come #10YearsChallenge riescono a risvegliare il Gramo misodigitale che alberga in tanti di noi, causa età, carattere, snobismo o acidità da postumi di sbronza social – io faccio la crocetta su quest’ultima casella: dev’esserci ancora in giro un mini-video dell’estate 2014 in cui, nella veranda di casa mia, mi rovescio sulla testa un secchio d’acqua fredda, sì, io che detesto l’acqua fredda come i vampiri l’aglio e la doccia fredda non la faccio nemmeno in spiaggia a mezzogiorno di Ferragosto. Tanto per capire com’ero messa.
Ma proprio perché ci sono passata so come succede: la fame (di visibilità, di like, di sentirsi parte di qualcosa di più grande, o alla moda) fa uscire il lupo dal bosco e fa mangiare l’aglio al vampiro, specie se c’è l’alibi di una buona causa. E nel caso della #IceBucketChallenge la buona causa era sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi dei malati di SLA e raccogliere fondi per la ricerca, obiettivo peraltro raggiunto.
Nella #10YearsChallenge, che inonda le timeline da qualche giorno, non c’è alcun pretesto filantropico. In chi posta le proprie foto del 2009, accompagnate da commenti più o meno autoironici o nostalgici, c’è solo la solita voglia di mostrarsi e raccontarsi, come in una megarimpatriata virtuale fra ex-compagni di un’immensa classe che non è mai esistita ma si è coagulata nell’ultimo decennio su Facebook. Social network che, non a caso, nasce in un contesto universitario, allargando il concetto dell’annuario scolastico all’americana, quelli con le fotine degli studenti tutti pulitini e sorridenti – Julia Roberts, il futuro serial killer, la futura senatrice, il futuro asso dello sport. E serve per lo più a vedere, dieci anni dopo, che brutta fine hanno fatto quelli che ai tempi della scuola erano la Più Carina o il Più Brillante (nella serie Diario di una schiappa ci sono pagine definitive sull’argomento).
In chi posta le proprie foto del 2009, accompagnate da commenti più o meno autoironici o nostalgici, c’è solo la solita voglia di mostrarsi e raccontarsi, come in una megarimpatriata virtuale fra ex-compagni di un’immensa classe che non è mai esistita ma si è coagulata nell’ultimo decennio su Facebook
È solo quando siamo molto giovani che un decennio può cambiarci visibilmente, ma, salvo disgrazie o eventi traumatici, non abbastanza da metterci in imbarazzo. Dai trent’anni in su, dieci anni spostano poco, se appena ci si prende cura di sé e si evita un regime alimentare alla Salvini (che difatti dal 2009 a oggi è peggiorato parecchio). Ecco perché in genere le foto dei TenYearsChallengers italiani fanno poco effetto: espressione di un paese vecchio, mostrano gente che non era giovanissima nemmeno dieci anni fa, ma ci tiene soprattutto a provare che oggi ha trovato il parrucchiere giusto o che non porta più certi occhiali orribili. I social ci hanno fatto regredire un po’ tutti, specialmente i non giovanissimi, all’esibizionismo gregario da liceo. E non un liceo italiano, che in genere è ancora un posto tutto sommato serioso dove, bene o male, si sgobba, e l’unica «challenge» è riuscire a capire esattamente come funziona quest’anno l’esame di maturità, ma uno di quei licei americani dove i nostri figli vanno a fare il quarto anno delle superiori, e scoprono con stupore che rispetto all’Italia si studia pochissimo e il ballo scolastico è un affare di Stato, come ai tempi di Grease.
Un vero affare – in senso economico – potrebbe essere la messe di foto ieri-e-oggi che stiamo riversiamo sul web, ingolositi dal giochino social. La scrittrice Kate O’Neill ha lanciato l’allarme in un tweet: «Io dieci anni fa: avrei partecipato allegramente con le mie foto a #TenYearsChallenge su Facebook e Instagram. Io oggi: mi chiedo se tutti questi dati non servano ad addestrare gli algoritmi a riconoscere i cambiamenti somatici in relazione all’età.» Algoritmi che possono, sì, aiutare a rintracciare dopo anni persone scomparse in giovane età, ma anche a farci ricevere pubblicità (anche elettorale) su misura per giovani o per vecchi, a seconda del nostro aspetto. O a mettere in guardia le assicurazioni, per dire, se abbiamo troppe rughe o troppi capelli bianchi per offrirci una polizza sulla vita o sulla salute. O, peggio, ad avvertire un datore di lavoro che il trentenne stempiato che sta pensando di assumere è lo stesso che dieci anni fa, con più capelli, partecipava a manifestazioni antigovernative o femministe. Insomma, rammolliti dalla nostalgia esibizionistica, facciamo (gratis) oggi il lavoro di delatori che ci incastrerà domani. Paranoia? Entro dieci anni potremo dirlo. Dev’essere questo il significato recondito di #TenYearsChallenge.