Ignorante a chi?Chi cambia le parole, cambia il mondo: ecco perché difendiamo la purezza della lingua da chi “scende il cane”

Nonostante la notizia non sia vera, la reazione è stata apocalittica: non sia mai, che il parlato (meridionale, contadino) assuma veste di legittimità. Per molti, studiati o no, è un tradimento definitivo, segno dei tempi ultimi della civiltà. E come ovvio esagerano

Chiariamo subito: la vera notizia non è che l’Accademia della Crusca ha assolto le forme «scendi il cane» e «siedi il bambino». Anche perché non è vera: i Cruscani hanno semplicemente rilevato che sono entrate nell’uso e sono ammissibili solo in contesto non formale, sicuramente non sui giornali e nei documenti ufficiali. La vera notizia è che il papa che definisce Maria “l’influencer di Dio” fa meno scalpore del verdetto dell’Accademia sull’uso transitivo di due verbi. Anzi, scalpore è poco.

L’opinione pubblica è stata percorsa da un’ondata di rabbia, sdegno delusione, quasi un senso di tradimento, lo stesso che proviamo di fronte a certe assurde sentenze della Cassazione o quando vediamo che il vigile non solo non fa la multa all’auto parcheggiata sulla ciclabile, ma gli dà una pulita al parabrezza.

Dalla contraerea dei social – e non solo dagli account grammar-nazi e radical chic – è partita una raffica di contumelie verso la Corte suprema dell’italiano, accusata di sdoganare l’analfabetismo funzionale e benedire i somari. Ci piacerebbe poter dire che si tratta di una reazione trasversale totalmente scevra da implicazioni politiche, ma in un momento in cui chi è al potere scredita e snobba laureati e studiosi e nomina Lino Banfi rappresentante dell’Italia all’Unesco, una Crusca non inflessibile verso scorrettezze linguistiche, per di più di origine meridionale e contadina, rischia di apparire sospettabile di acquiescenza, se non addirittura di intelligenza col «nemico».

La cosa buffa è che il presunto baluardo della lingua costituita, quello che percepiamo come il Sant’Uffizio della grammatica e della sintassi, alla sua origine aveva proprio la missione di esaltare la lingua del popolo – quello toscano.

L’Accademia della Crusca nacque nella Firenze del Cinquecento dalla scissione dell’«ala creativa» dell’Accademia Fiorentina, istituzione protetta dai Medici, troppo ingessata sull’italiano di Dante e Petrarca. Un gruppo di intellettuali buontemponi decise che la lingua più autentica non era quella dei plurilaureati dell’epoca, ma quella dei contadini, degli artigiani, dei mugnai. Anzi, la lingua era proprio come la farina, prodotta dalle vive macine del parlato e spesso adulterata, più che raffinata, dalla letteratura.

Gli «Infarinati», come si chiamavano all’inizio i Cruscanti, giravano per le campagne come oggi fanno i bird-watchers e attaccavano bottone con i villani per carpire dalle loro bocche, estatici, il toscano nella sua purezza. (Chi ha qualche anno non può non ricordare lo straniamento nell’ascoltare le deposizioni in aula di Piero Pacciani, il presunto Mostro di Firenze, un bifolco illetterato che parlava come Lorenzo il Magnifico). Dopodiché si riunivano intorno a un tavolo d’osteria e, fra mangiate, bevute, risate ed alterchi, confrontavano e selezionavano il rispettivo bottino.

Poi le dispute linguistiche sono diventate una cosa maledettamente seria, perché la lingua è diventata una questione politica. E non solo in Italia, ma in Europa. Più si affermava l’idea di Stato, e poi di nazione, più era importante normare e irreggimentare il modo in cui la gente parla, e soprattutto pensa. È il linguaggio che forma le strutture della mente: fin da piccoli noi impariamo a costruire i nostri pensieri per mezzo delle parole che impariamo dai genitori. Francia, Inghilterra e Spagna si dotarono anche loro di accademie linguistiche simili a quella fiorentina, e come la Crusca, anche loro cominciarono a sfornare vocabolari paradigmatici.

Il «purista», alla fin fine, vuole semplicemente difendere una condizione raggiunta faticando sui banchi e fra i libri, e che ora gli permette di sentirsi superiore alla massa, in quanto non ignorante

In Italia la «questione della lingua» era già stata affrontata nel Rinascimento da Pietro Bembo, l’umanista veneziano che per primo aveva proposto l’italiano degli autori toscani come collante linguistico della penisola. E il veleno che scorre ancora oggi in tutte le diatribe sull’italiano, dal congiuntivo a «petaloso» a «scendi il cane» potrebbe essere solo conseguenza dell’appassionato love-affair tra Bembo e Lucrezia Borgia, se non fosse che la stessa cosa succede in Francia, Spagna, Inghilterra, Germania e perfino negli Stati Uniti. Tutti i tentativi di riforme ortografiche o grammaticali imposte dall’alto per ragioni di praticità – dall’abolizione dell’accento circonflesso in Francia alla ß (doppia ss) tedesca al “their” inglese usato come pronome possessivo singolare – sono state accolte da grida scomposte. Non dagli intellettuali, ma dalla gente normale, quella che in altri campi invoca la semplificazione.

E non parliamo delle proposte di riforma volte a ridurre il sessismo nella lingua. In Italia Laura Boldrini è stata letteralmente macellata per aver raccomandato l’uso di «sindaca» e «presidente» al femminile (peraltro grammaticalmente ineccepibili), e nel paese di Macron la rivolta anti-élites dei gilet gialli è stata anticipata dall’insurrezione contro la «scrittura inclusiva», in particolare contro il punto intermedio nei nomi maschili-femminili (esempio, se si parla di candidati uomini e donne, nella scrittura inclusiva il singolare è la candidat.e e il plurale è les candidat.e.s).

Non si tratta solo dell’attaccamento alle vecchie regole imparate a scuola, supportato da presunte ragioni di «eufonia»: il livore delle reazioni a ogni tentativo di stabilire ufficialmente la pari dignità fra i generi nel linguaggio è sintomo della resistenza (inconscia, e non solo maschile) ad accogliere l’uguaglianza uomo-donna nel profondo dei nostri cervelli, prima ancora che nella società.

Insomma, chi cambia le parole, cambia il mondo. O almeno ci prova. Mussolini voleva cambiare la testa degli italiani, e vedendo come siamo messi oggi viene da pensare che sia l’unica cosa che gli è riuscita almeno in parte, altro che l’Iri e le pensioni. Perché, da ex maestro elementare, ha iniziato la sua «pedagogia» introducendo un nuovo modo di parlare, fatto di slogan e di parole d’ordine, e se non è riuscito a sradicare il «lei» è perché contro il sostrato spagnolesco e feudale della mentalità italiana ci voleva ben altro impegno.

D’altra parte, il vero intento del grammar-nazi, come ha osservato malignamente l’Economist in occasione delle proteste francesi pro-circonflesso (girava addirittura l’hashtag #JeSuisCirconflexe, sullo stampo di #JeSuisCharlie), non è difendere la correttezza della lingua di Chateaubriand (o di Dante o di Dickens), ma mantenere una differenza di status: quella fra chi ha studiato Chateaubriand (o Dante o Dickens) e chi no.

Costa ammetterlo, ma il «purista», alla fin fine, vuole semplicemente difendere una condizione raggiunta faticando sui banchi e fra i libri, e che ora gli permette di sentirsi superiore alla massa, in quanto non ignorante. Magari non legge una poesia dai tempi della scuola media e non ricorda la tabellina del sei, però il congiuntivo, caspita, lo sa usare, e questo gli dà il diritto di bacchettare invelenito chi si permette di infischiarsi di tempi e modi, per ignoranza o per artistica sprezzatura.

Se quest’anima tormentata (in cui mi riconosco) ha l’impressione che anche l’Accademia della Crusca disprezzi i suoi sforzi anziché dirgli bravo, gli scende la catena. (Per inciso: catena è soggetto, scende predicato, gli complemento di termine. Sto usando il verbo in modo intransitivo, non come in “scendi il cane”, ci tengo a precisarlo. E comunque io non sopporto quelli che scrivono e pronunciano accellerare e grattuggiato. Ma a questo punto ho paura a chiedere in proposito l’intervento della Crusca. Magari dice che, «in un contesto informale», hanno ragione loro).

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