“Io non sono nel business. Io sono il business”, dirà Rachel fra qualche mese. Perché, se a qualcuno fosse sfuggito, questo è l’anno di Blade Runner: l’unico e vero Blade Runner, ambientato a Los Angeles nel novembre del 2019.
Nel 1982, quando il film uscì, tutti, nessuno escluso, avemmo l’impressione che quel futuro fosse il futuro. Quel blu, quella pioggia, persino quell’insopportabile sax così anni Ottanta. Cosa ha reso così diverso quel futuro sul quale tutti avremmo scommesso da questo futuro così immensamente più povero? Nessuna traccia di quel romanticismo, di quel vittoriano al neon, di quelle strade dove insieme al vapore gli affari “ronzavano” (per dirla con un altro grande, William Gibson).
D’accordo, Deckard, nel film, fa una videochiamata a Rachel da una cabina telefonica. Sembrerebbe che dal primo iphone in poi il nostro futuro si sia definitivamente staccato da quello del film, come se la realtà si fosse semplicemente concentrata su altro. Eppure, letterariamente, sembra che gli smartphone siano piuttosto la conseguenza e non la causa. Ma di cosa? Quale è insomma la differenza tra l’umanità prevista da Blade Runner e quella che ci troviamo di fronte oggi?
Sappiamo che Philip K. Dick fu inizialmente ostile alla piega che stava prendendo il film (tratto da un suo racconto, “Il cacciatore di androidi”, o “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”), ma che cambiò idea, diventando entusiasta della trasposizione, quando vide il primo girato: “È proprio la Los Angeles che avevo immaginato io!”. Perché la forza di Blade Runner (il film) sta lì: nel “punto di vista”. Non nella scenografia, ma nello “sguardo” che “vede” la scenografia; quello di Deckard, come quello di Dick, come quello di Ridley Scott. A partire da questo sguardo riformuliamo la domanda: è così diverso quel mondo del 2019 da questo mondo del 2019?
Se per un momento abbandoniamo la potenza dello sguardo del protagonista e vediamo il 2019 di Blade Runner con gli occhi di uno qualsiasi degli altri protagonisti (i replicanti, Il dott. Tyrrel, J.F. Sebastian), ecco che quel 2019 coloratissimo e “ronzante” diventa quasi un film muto, il vapore diventa umidità (“attenta alle pozzanghere”, “che buio che c’è qui dentro”), l’alienazione diventa la stessa di questo 2019: la vita che scorre coloratissima e geniale e avventurosa intorno a Deckard, diventa l’automatismo di una forza lavoro svuotata di ogni significato.
La città, vista con gli occhi di Deckard, era il luogo dell’avventura. Ma vista con gli occhi degli altri protagonisti? Notate ancora qualche differenza con il nostro 2019? Intrattenimento “sintetico”: “se potessi permettermi un serpente vero credi che sarei qui?”, dice la replicante spogliarellista dopo lo spettacolo in cui si dà piacere con un serpente “di altissima qualità”
È lo sguardo di Deckard che “accende” quel 2019. Così come, in quegli anni Ottanta, gli sguardi “accendevano” i primi personal computer, le biciclette dei Goonies, le avventure in Wall Street. I commodore, gli amiga, gli spectrum, i primi 286, si spalancavano possibilità. La città, vista con gli occhi di Deckard, era il luogo dell’avventura. Ma vista con gli occhi degli altri protagonisti? Notate ancora qualche differenza con il nostro 2019? Intrattenimento “sintetico”: “se potessi permettermi un serpente vero credi che sarei qui?”, dice la replicante spogliarellista dopo lo spettacolo in cui si dà piacere con un serpente “di altissima qualità”.
Cosa abbiamo perso di “quel” 2019? Certo non abbiamo perso quei macchinari alimentati a ventola, né i minischermi sintonizzati sul nulla dei quali sono piene le case, né quei pc con le schermate colme di codici che scorrono senza sosta. Non abbiamo perso la robotizzazione (ce l’abbiamo qui, in ogni casa, in ogni assistente vocale, e non su qualche pianeta a scavare in miniera). Non abbiamo perso neanche la paranoia.
Abbiamo perso “quello” sguardo. Lo sguardo “letterario” sul futuro, che immancabilmente è lo sguardo letterario sul presente. Non è un caso se la letteratura “distopica” sia oramai appannaggio dei cosiddetti “young adult”, letteratura per adolescenti, capaci ancora di emozionarsi, di trasfigurare “questo” presente in un presente apocalittico, capaci ancora di vivere dentro una metafora, dentro il fluire di una storia. Ma in quegli anni “Blade Runner” non fu un film “solo” per adolescenti, non fu un “Maze Runner” un “Hunger Games”, fu una svolta, divenne un film presente nelle top ten dei preferiti di tantissimi.
Rivedere Blade Runner oggi dà questa possibilità, la possibilità di intuire cosa abbiamo perso da quel 1982 ad oggi. Non si tratta di tecnologia, si tratta di umanesimo. Si tratta di colori, di avventura, di valori, di missioni. Di emozione. Di muoversi in un mondo che potrebbe essere fatto di replicanti. Replicanti che potremmo essere anche noi stessi, ma senza mai accettarlo del tutto.