Sono oltre trenta i Cesare Battisti sparsi nel mondo – prevalentemente in America Latina – molti dei quali provenienti dall’area del terrorismo di sinistra. Un piccolo mondo che si tiene lontano dai riflettori e che a differenza del compagno Battisti non ha scritto libri, non ha quasi mai rilasciato interviste, ha fatto del tutto per farsi dimenticare al punto da avvalorare l’idea di uno scambio di lungo periodo con chi avrebbe dovuto cercarli: voi sparite, noi vi lasciamo sparire.
Lui, lo sbandato di Cisterna di Latina, il rapinatore diventato rivoluzionario a San Vittore, l’uomo dei Pac che forse arriverà oggi in Italia dopo la cattura in Bolivia, è stato il più improvvido del gruppo o forse solo il più stupido. Non si è reso conto che anche il tipo di copertura e protezione di cui beneficiava aveva un limite. E non ha capito in tempo che il potente coté intellettuale di cui si era fatto scudo per decenni – da Daniel Pennac a Bernard-Henry Lévy, dalla Fred Vargas fino ai 1.500 firmatari italiani e francesi dell’appello in suo favore nel 2004 – stava perdendo la sua capacità di interdizione politico-culturale.
Anche per questo, chi ha vissuto gli anni di piombo si trova a disagio nel trattare come un evento festoso l’arresto e il ritorno in Italia di Battisti. È un atto di giustizia, è il compimento di un dovere, ma al tempo stesso è sale su una ferita mai cicatrizzata: quella della ambigua e omissiva chiusura della stagione della lotta armata, con la comune sensazione che troppe verità siano state sacrificate alla ragion di Stato. Potito Perruggini, nipote di Giuseppe Ciotta, l’agente di polizia ucciso nel 1977, lo ha detto con chiarezza ieri, nella prima intervista a caldo dopo l’operazione dell’Interpol in Bolivia: «Credo che servirebbe un Comitato di riconciliazione come avvenne in Sud Africa, con la stessa condizione posta da Mandela: un contributo alla verità storica», che «non sempre è uguale alla verità giudiziaria».
La speranza di una “soluzione sudafricana” in realtà è tramontata da un pezzo. Si preferì la soluzione italiana. Ed è anche per questo che oggi l’elenco dei terroristi “spariti” – alcuni dei quali, peraltro, residenti in domicili noti – è così lungo e tanti passaggi degli anni delle pistole e delle bombe risultano ostinatamente misteriosi nonostante migliaia di inchieste e processi
La speranza di una “soluzione sudafricana” in realtà è tramontata da un pezzo, almeno dagli anni ’90, quando i partiti scartarono con decisione questo tipo di prospettiva – amnistia in cambio di confessioni autentiche – giudicandola probabilmente troppo pericolosa per gli attori politici dell’epoca e per i loro predecessori che avevano gestito le temperie della Guerra Fredda. Si preferì la soluzione italiana. Ed è anche per questo che oggi l’elenco dei terroristi “spariti” – alcuni dei quali, peraltro, residenti in domicili noti – è così lungo e tanti passaggi degli anni delle pistole e delle bombe risultano ostinatamente misteriosi nonostante migliaia di inchieste e processi.
Cesare Battisti di questa “soluzione italiana” ha fatto parte fino a un certo punto, nella prima e lunga fase della sua latitanza trascorsa in Messico, fino al 1990. Lui stesso, in una lunga intervista del 2013, ammise che lì nessuno lo disturbava anche se le autorità erano al corrente della sua presenza visto che tra l’altro era in contatto con il sindacato universitario e frequentava il mondo del sub-comandante Marcos. È la decisione di entrare in Francia e di approfittare delle leggi dell’epoca per conquistare la cittadinanza francese a metterlo sotto ai riflettori, insieme all’avvio di un’attività letteraria fortemente autobiografica.
Così Battisti diventa personaggio, il personaggio che non è mai stato nel mondo del terrorismo – nell’elenco dei latitanti ci sono nomi ben più “forti”, dal cecchino delle Br Alvaro Loiacono ad Alessio Casimirri, entrambi membri del commando che rapì Moro – e rompe il tacito patto del silenzio che ha favorito tanti suoi compagni. Non solo i libri. Interviste. Comparsate. Nel successivo periodo brasiliano persino una partecipazione al Carnevale di Rio sul carro di una scuola di danza e un’intervista alle Iene in cui racconta deliziato una rapina in banca e le spese proletarie nei supermercati. È questo che lo trasforma nel Ricercato Numero Uno, ben oltre la sua caratura criminale. Il tramonto del suo grande protettore, l’ex-presidente brasiliano Lula, farà il resto.
Ora il suo arresto viene giustamente celebrato come la fine di una vicenda che ha a lungo sfregiato la credibilità italiana, oltreché i diritti delle vittime. E tuttavia chi quelle vittime le ha viste per terra, da ogni parte, e le ha visitate in ospedale, e si è chiesto per anni come balordi di questa fatta siano riusciti a fuggire per anni, non riesce a entusiasmarsi più di tanto. La giustizia, certo. Ma la verità storica deve ancora arrivare, semmai arriverà.