Il bastone. La giustizia fa il suo corso, i corsi e ricorsi storici sono snervanti, il giudizio sull’uomo non m’interessa, m’incanta l’opera, che è conversione e corrosione, condanna, grazia e massacro. La letteratura – mi spiace corrompere i puri – se ne frega della statura morale di chi scrive. Conta, appunto, la scrittura. In questo caso, il dramma di Cesare Battisti, il delinquente, l’assassino, il vigliacco, è che è un pessimo scrittore, oltre a punire chi lo ha spalleggiato garantendogli una latitanza lunga e biecamente fiera, dovremmo beccare i trafficanti dell’editoria che gli hanno permesso, spudoratamente, nonostante le lagne di facciata – «se un editore in Italia tira fuori un mio libro si fa massacrare dalla stampa» – di pubblicare per Einaudi, di fare il galletto in Gallimard, come se lo status di rifugiato politico consentisse anche un rifugio editoriale, una fuga dall’anonimato estetico.
Ora, sonoramente, i libri di Battisti sono brutti, banali, irritanti per la loro irrisoria derisione formale, servono, eventualmente, a ricostruire la storia di un criminale qualsiasi, piuttosto gretto (in L’ultimo sparo questa è la descrizione di Lotta Continua: «Si potevano fumare gli spinelli insieme a ragazze che non facevano troppe storie»; in Autonomia Operaia, invece, «portavano il passamontagna, agitavano pugni e pistole e non c’erano santi… le ragazze, se si scatenavano a letto come facevano nelle piazze, c’era da rischiare una sincope», insomma la rivoluzione era un fotti fotti con cappuccio in testa, pistole, pistolotti e droga a grandine), la banalità del male in divisa da proletario armato, un giacimento d’ignoranza (in una intervista del 2003, per dire, ci tiene a ribadire il profilo di Gramsci, “questi cosiddetti mattoni non li ho mai letti”, eppure, “eravamo tutti dei pazzi furiosi di libri”, tra i delinquenti della rivoluzione, “mi ricordo l’ondata di Bukowski: si doveva tutti quanti leggere Bukowski, che poi era anche un piacere. Grazie ai compagni, ho riscoperto Chandler”).
I romanzi di Battisti, voglio dire, sono l’epos del piagnisteo, il delirio dello sconsolato, il pio pio del Calimero Pulcino Nero – pardon, rosso – della lotta armata, la ramanzina pietosa dell’inetto. «Io non sono un immigrato, ma un insolito rifugiato politico senza statuto, un residuo degli ‘anni di piombo’, condannato all’invisibilità in cambio di un bivacco in territorio francese. Per me non ci sono diritti civili, ma esclusivamente debiti penali che non si estingueranno mai»: così comincia la trapezistica trafila di singhiozzi dal pulpito de L’orma rossa, romanzo griffato Einaudi, in cui Battisti parla di se stesso, facendosi il ritratto da bello & dannato (“Mi sembra di avere a che fare con un gangster, e per giunta squattrinato”, azzanna la donna di CB, attaccando la patetica geremiade: “Per anni ci siamo tirati dietro la polizia attraverso mezzo mondo, cambiando domicilio ogni tre mesi, e senza poter scrivere una lettera a casa”), idiota politico impunito (“A Palmiro [Togliatti] gli si può rimproverare tutto, ma non che non fosse il miglior politico”), povero cristo battezzato dall’utopia e battuto dal potere bastardo. Ma la letteratura è più bastarda di Battisti e del potere che lo avrebbe mostrificato, la letteratura è un mostro che non dà scampo, perché se non c’è un riscatto della forma contro le storture della vita, allora la colpa si decuplica.
Col senno di ora – allora faceva figo fare il romanziere latitante, ma qui l’unica latitanza è quella del genio narrativo – i libri di Battisti si leggono per farsi due scaltre risate (qui profetizza la sua fuga latinoamericana: “Un giorno o l’altro lascerò la Francia e attraverserò l’oceano verso ovest, inseguendo il sole morente”): tanto rivoluzionario e cazzuto – o cazzone, è uguale – nella vita, tanto reazionario nel linguaggio, fintamente letterario e rètro (“In strada tiro su il bavero. La Senna sparge tutt’intorno una nebbia gelida che mi si appiccica addosso, fa freddo e siamo solo al principio dell’autunno”, pare un incrocio tra Marguerite Duras e le previsioni del tempo). Poi, certo. Battisti è un pessimo romanziere – dell’uomo non m’importa, l’ho detto – ma il suo aureo editore è vigliacco. Prima Einaudi punta tutto sul giallista armato, censendolo con una nota biografica francamente imbarazzante (“Cesare Battisti, originario di Latina, è stato negli anni Settanta un militante della formazione dei Proletari Armati per il Comunismo. Arrestato nel 1979 ed evaso spettacolarmente nel 1981, è riparato prima in Messico e poi a Parigi, dove risiede ancora oggi. Cesare Battisti è riconosciuto in Francia come uno degli scrittori di punta del nuovo romanzo nero”), hollywoodiana, atta a ‘creare il personaggio’ (badate alla parola spettacolarmente). Poi, se ne sbarazza. Provate a comprare L’orma rossa. “Attualmente non disponibile”. Ovviamente. “Vista da lontano, l’Italia è un dolce paese di pazzi”, diceva Battisti nell’agiografica appendice al romanzo einaudiano. Da vicino, invece, è un piccolo paese di str**zi e di mediocri.
Cesare Battisti, L’orma rossa, Einaudi 1999
Col senno di ora – allora faceva figo fare il romanziere latitante, ma qui l’unica latitanza è quella del genio narrativo – i libri di Battisti si leggono per farsi due scaltre risate: tanto rivoluzionario e cazzuto – o cazzone, è uguale – nella vita, tanto reazionario nel linguaggio, fintamente letterario e rètro
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La carota. A forza di decapitare miti mi si è rotta l’ascia. Un mito che resta da decapitare è quello dell’artista bandito, del romanziere eroico perché canaglia, una truffa pubblicitaria come tante altre, per farlo tirare al lettore visibilmente annoiato. L’arte è bandita, in rivolta, rivoltante, rivoltosa – l’artista è secondario, può essere un uomo pio, un bravo cristo che scrive, però, per detronizzare gli dèi. Nel falso mito ci sono cascato anch’io. Vent’anni fa – beato idiota che zatterava sui suoi vent’anni – ho scritto, pressappoco, che James Ellroy, romanziere statunitense di fama con una infanzia da sbandato, era il Dostoevskij del nostro tempo.
Avevo letto I miei luoghi oscuri. Era da poco uscito Tijuana, mon amour. Ora. James Ellroy è uno scrittore che conosce il senso della parola ritmo. Incipit di American Tabloid. «Si faceva sempre alla luce del televisore… Howard Hughes trovò la vena e si iniettò la codeina… La droga giunse a destinazione. Il volto di Big Howard si fece vacuo». Se leggo Battisti mi cascano le braccia, se leggo Ellroy mi diverto, è meglio di un buon film. Però. Dostoevskij… Eppure, dev’essere un chiodo fisso. Censendo Come una bestia feroce di Edward Bunker, noto brigante – a 17 anni lo parcheggiano a San Quintino – adorato da Quentin Tarantino e da ‘Bob’ De Niro, è rimasta celebre la frase di Niccolò Ammaniti, “Se dovessi paragonarlo a un altro romanzo che ha avuto un impatto su di me della stessa potenza, non avrei dubbi a dire Delitto e castigo”. Ancora Dostoevskij.
Al che m’è brillato il dubbio: non è che per dire il male devi essere per forza un galeotto, che cagata è mai questa, una cretinata che funziona tra letterati in barrique, tra scrittori spumeggianti che maneggiano il flûte più che la penna. Quando ho letto Little Boy Blue o Educazione di una canaglia ho provato un sapido godimento narrativo. Tuttavia, non sono libri che avrei voglia di rileggere, non mi hanno squassato come i ‘Karamazov’, per dire, che continuo a spalancare per il gusto di ulcerarmi – stessa cosa m’accade, per dire, con l’imperiale Victor Hugo, ma questo lo ha già scritto, su Rolling Stone, un rollio di anni fa Gian Paolo Serino: «Il consiglio è dimenticare Bunker e, magari, (ri)prendere in mano I miserabili».
Il grande libro sul grande male ce lo abbiamo dentro casa. Lo ha scritto Gabriele Del Grande, che è un bravo ragazzo eppure per la Turchia è un tipo pericoloso: nel 2017 l’hanno messo dentro per due settimane, di cui dieci giorni in isolamento
In realtà, il grande libro sul grande male ce lo abbiamo dentro casa. Lo ha scritto Gabriele Del Grande, che è un bravo ragazzo eppure per la Turchia è un tipo pericoloso: nel 2017 l’hanno messo dentro per due settimane, di cui dieci giorni in isolamento. Il libro s’intitola Dawla, e racconta “la storia dello Stato islamico” attraverso la voce dei disertori. Insomma, Del Grande ha avuto il fegato di interrogare i briganti quelli veri, ma soprattutto ha in dote una spavalderia narrativa da romanziere. Il libro è fondamentale e terribile («Adesso il fronte gli mancava. Era quella la dannata verità. Gli mancava l’odore della morte, quell’entrare all’inferno e uscirne vivo e gli mancava uccidere e gli mancava quella strana quiete che si respira tra un’esplosione e l’altra, la notte, quando non si sentiva volare una mosca e smettevano di cantare anche i grilli e gli uccelli»: questo è il pensiero dell’estremizzato Abu Mujahid), perché ci fa entrare in un territorio dove parole come bene e male, giusto e ingiusto, vita e morte, verità e menzogna, dio e omicidio, assumono stature diverse da quelle che diamo per date, spesso spaventose. «Per incontrare i carnefici, ci si sporca le mani», scrive Del Grande. Che non è un bandito, non è un assassino, non è un criminale con il gusto per il romanzo. È uno scrittore. E come gli scrittori quelli veri, disseziona le ragioni del male, a costo di farsi del male, per salvare ciò che è innocente.
Gabriele Del Grande, Dawla. La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori, Mondadori 2018, pp.606, euro 19,00