Come nel gioco dell’oca anche il risiko bancario torna sempre alla casella di partenza. È di nuovo allarme per il Monte dei Paschi di Siena. Il campanello viene suonato a Francoforte dalla Bce la quale chiede che vengano smaltiti i crediti marci che non potranno mai essere recuperati. La scadenza non è estremamente ravvicinata, sono sette anni, ma siccome le sofferenze ammontano a sette miliardi di euro, si tratta di cancellare un miliardo l’anno accantonando una cifra equivalente, In altri termini, bisogna aumentare il capitale di un miliardo l’anno per sette anni. Visto che la banca è stata nazionalizzata “temporaneamente”, per ora li dovrà trovare il Tesoro prendendoli dalle tasche dei contribuenti. Con buona pace di Luigi Di Maio e del suo grido di battaglia: nemmeno un soldo alle banche.
E non si tratta solo del Montepaschi. Tutte le banche italiane ed europee controllate dalla Bce (sono 119), hanno ricevuto a dicembre una lettera con lo stesso invito, anche se la scadenza temporale è diversa. Il mercato ha percepito chiaramente che ciò innesca una reazione a catena. In Borsa i titoli bancari hanno preso un altro bagno. E ricomincia la solita litania contro il cerbero europeo, i tecnocrati, i mandarini che non capiscono il caso italiano e ancor più “danneggiano” l’Italia, come s’è affrettato a dichiarare Matteo Salvini. Il leader leghista in realtà, non ha tutti i torti, non perché sia all’opera il solito complotto anti-nazionale, ma per quello che lui non dice: cioè che le banche italiane restano nel loro insieme troppe (sono ancora 600), piccole, deboli, poco efficienti, arretrate tecnologicamente con scarso capitale e una governance improntata troppo spesso al localismo clientelare. Anche per questo sarà difficile smaltire i 37 miliardi di crediti deteriorati che hanno ancora in pancia. Sarebbe ingiusto sostenere che nulla sta cambiando, ma si va avanti a passo di lumaca, si aspetta sempre che scoppi il bubbone invece di prevenirlo. Nel loro insieme, le banche debbono ancora compiere la ristrutturazione che ha già attraversato l’industria manifatturiera; la distruzione creatrice dell’economia digitale è rimasta davanti agli sportelli.
Per il Financial Times e per il Wall Street Journal le banche europee sono il pericolo maggiore per l’economia internazionale subito dopo la Brexit e i dazi di Trump
La debolezza italiana si inserisce in una situazione delle banche europee che ha già suscitato allarmi sui giornali che muovono i mercati. Per il Financial Times e per il Wall Street Journal è questo il pericolo maggiore per l’economia internazionale subito dopo la Brexit e i dazi di Trump. Nel 2008 la bomba deflagrò negli Stati Uniti, oggi potrebbe manifestare i suoi effetti devastanti prima in Europa. Come mai? Molto deriva dal modo in cui è stata affrontata la crisi di dieci anni fa. Negli Stati Uniti il Tesoro è entato direttamente nel capitale, mentre in Europa la mano pubblica s’è impegnata a garantire l’attivo bancario, ma è emerso che quella garanzia non era sufficiente e spesso nemmeno credibile.
Una volta risanato il sistema, le banche USA hanno restituito il capitale, con guadagno per i contribuenti. In Europa sono poche le banche che hanno ridato fondi all’erario. Nel 2008 Christine Lagarde, allora ministro delle finanze francese, aveva proposto di seguire lo stesso esempio, ma la sua idea venne subito bocciata. Ogni governo ha cercato di lavare i panni sporchi in casa propria, forse perché sapeva quale sporcizia ci fosse. Il Tarp è sostato 700 miliardi di dollari, l’Unione europea ha speso altrettanto, ma ha gettato la polvere sotto il tappeto e i contribuenti non ha avuto nulla indietro. A dieci anni dalla crisi le grandi banche americane sono diventate più grandi, mentre quelle europee stanno riducendo la loro attività. Di fatto, le banche USA stanno controllando il mercato europeo dei capitali e anche quello sui titoli di stato.
Le banche americane sono mediamente più capitalizzate, anche se non è vero per tutte. La reale differenza si chiama profitto. La maggior redditività USA è dovuta a vari fattori, primo tra tutti il livello più elevato dei tassi d’interesse, un modello di business più orientato ai servizi, un livello tecnologico più avanzato. L’altro fattore determinante è la concentrazione: le cinque principali banche USA hanno il 50% per cento del mercato, le prime 5 banche europee hanno il 20% del mercato. Per questo la Bce chiede una maggior concentrazione e un rafforzamento del capitale. Il completamento dell’unione bancaria potrebbe dare un aiuto (anche se bisogna vedere quando e come avverrà), tuttavia il problema è soprattutto industriale, non istituzionale. In assenza di dimensioni sufficienti per essere redditizie, le banche andranno in sofferenza, a cominciare da quelle più piccole, diventeranno più fragili soprattutto in caso di recessione, non avranno fondi sufficienti per investire in tecnologia e far fronte ai requisiti regolamentari, non attrarranno eventuali investitori quando servirà aumentare il capitale.
È facile prevedere che toccherà di nuovo allo stato (cioè ai contribuenti) mettere una toppa
I sistemi creditizi più frammentati e politicamente esposti sono in Italia e in Germania. La buona performance dell’economia tedesca, grazie soprattutto alle esportazioni, ha tenuto in piedi il sistema, adesso che la congiuntura cambia le magagne vengono fuori. La lunga recessione italiana non ha consentito di mascherare nessun limite di fondo. Con la ripresina cominciata nel 2016 si erano aperti alcuni spiragli, sembrava che fosse possibile gestire la inevitabile selezione. Invece, sono emersi subito i legami politici (nessuna banca è tanto piccola da poter fallire a causa delle ricadute in termini elettorali, come ha sperimentato il Pd), ai quali s’aggiungono le difficoltà strutturali come la mancanza di un mercato finanziario in grado di assorbire i non performing loans, la carenza di capitali e di “imprenditori bancari”, le resistenze sindacali e localistiche. Intanto la ripresa si è spenta e a metà dello scorso anno è cominciata una brusca frenata che potrebbe trasformarsi in recessione. La finestra si chiude, il risanamento delle banche italiane diventa più difficile, mentre si odono in sottofondo altri allarmanti crac.
È facile prevedere che toccherà di nuovo allo Stato (cioè ai contribuenti) mettere una toppa. Ma l’intervento pubblico è un’altra chimera evocata dagli illusionisti della politica. In primo luogo non ci sono abbastanza risorse nelle casse del Tesoro e ancor meno ce ne saranno se il ciclo economico s’inverte, in secondo luogo la nazionalizzazione non è sinonimo di risanamento né finanziario né industriale. Troppi sono i vincoli ai quali il governo deve sottostare, vincoli elettorali, sociali, corporativi, mentre ci vorrebbe un pugno di ferro in guanto di velluto. Ancor meno c’è da aspettarsi dall’alleanza giallo-verde, per il suo statalismo di fondo e per la subalternità agli interessi di parte che vien fuori in ogni occasione e ha dimostrato anche nel caso di Carige.