Sembra incredibile ma c’è stato un tempo in cui il Movimento cinque stelle ha proposto Stefano Rodotà come candidato alla presidenza della Repubblica. Un costituzionalista, di sinistra, laureato in Giurisprudenza, e professore inviato a Oxford e Stanford. Era il 2013, sei anni fa, ma ne sembrano passati sessanta. Il movimento fondato da Beppe Grillo appena entrato in Parlamento era rappresentato da due sconosciuti, abbastanza a disagio davanti alle telecamere: Vito Crimi e Roberta Lombardi. Allora uno valeva uno. Sei anni dopo il M5S è al governo, uno vale ancora uno, ma ce n’è uno che vale più degli altri: Luigi Di Maio che il 22 gennaio ha deciso di nominare Lino Banfi delegato Unesco per l’Italia. Sì, avete letto bene. Basta questo per capire il mutamento politico e culturale del M5S: ieri nel pantheon c’erano Zagrebelsky e Dario Fo, oggi Orietta Berti e Jerry Calà. Ieri comandavano Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, oggi il figlio Davide e Luigi Di Maio.
La presentazione del reddito di cittadinanza è stato l’ultimo atto di una virata nazionalpopolare, un po’ più a destra, molto lontana dal movimento antisistema delle origini, allora, un po’ più a sinistra. Una fase iniziata dalla morte di Casaleggio senior, proseguita con il passo di lato del garante Beppe Grillo e suggellata dalla nomina a capo politico di Luigi Di Maio per 5 anni. Un cambiamento riassunto bene dal direttore de Il Tempo Franco Bechis: nel 2013 elettori (soprattutto) di destra hanno eletto parlamentari di sinistra, nel 2018 elettori (soprattutto) di sinistra hanno eletto parlamentari di destra. Nel Movimento di governo non c’è più spazio per le anime movimentiste: Fico è stato mandato a fare il presidente della Camera, Di Battista in piazza e in tv, in attesa di andare a studiare il sistema monetario in India. Sul palco in giacca e cravatta, il vice presidente del Consiglio Di Maio, molto più a suo agio con le telecamere, a presentare le slide del reddito di cittadinanza.
in politica la forma è sostanza, la storia personale un’arma a doppio taglio, le parole un’arma da usare con cura quando si hanno i microfoni accesi. Soprattutto se appena ti nominano delegato Unesco dici: “che c’entro io con la Cultura?” o “Basta con tutti questi plurilaureati nelle commissioni, io porterò un sorriso”. Forse la sua battuta migliore.
E dire che in quella lista di potenziali presidenti della Repubblica votati dagli attivisti grillini nel 2013 c’erano Milena Gabanelli, Emma Bonino (sì, proprio lei) e Gino Strada. A certificare il distacco dalle origini è stato proprio il fondatore di Emergency a Radio Capital: “si è governati da una banda dove la metà sono fascisti e l’altra metà sono coglioni”. Sta a voi distribuire gli aggettivi, in ogni caso è il segno del cambiamento dei tempi. Il mantra del M5S è sempre stato: meglio un cittadino ignorante ma onesto di un politico bravo ma disonesto, si dirà. Vero, verissimo, ma per scegliere i parlamentari. Quando si è trattato di nominare cariche pubbliche o simboliche le parole d’ordine del Movimento sono sempre state: curriculum, adeguatezza al ruolo e professionalità. Di Maio non si è ricordato molto di questo principio, quando sul palco ha presentato il suo “maestro” Banfi: “Ti meriti questo ruolo perché hai fatto ridere tre generazioni”. Davvero tutti gli italiani hanno riso negli anni sentendo Banfi dire “porca puttena” o “madonna incoroneta” mentre si dava gli schiaffi in fronte? Ognuno ha i suoi idoli.
Nessuno si scandalizza per gli endorsement degli artisti italiani che tengono famiglia e corrono sempre in soccorso del vincitore. Ma in politica la forma è sostanza, la storia personale un’arma a doppio taglio, le parole uno strumento da usare con cura quando si hanno i microfoni accesi. Soprattutto se appena ti nominano delegato Unesco dici: “che c’entro io con la cultura?” o “Basta con tutti questi plurilaureati nelle commissioni, io porterò un sorriso”. Forse la sua battuta migliore.
Un tempo il Movimento elogiava il genio del ribelle Dario Fo, premio Nobel per la letteratura nel 1997. Oggi si ritrova a celebrare un comico che ha detto di Berlusconi: “Io gli vorrò sempre bene e lo voterò sempre, anche se un giorno ammazza 122 persone”
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C’è chi ha detto che la nomina del comico pugliese è stata un’arma di distrazione di massa per non far parlare male del reddito di cittadinanza. Forse, ma la bomba mediatica gli è scoppiata in mano. Il punto non è il ruolo di Banfi (è stato già ambasciatore Unicef e paradossalmente potrebbe dare visibilità più di altri sulle iniziative dell’Unesco, lasciando ai grigi funzionari la burocrazia e l’attività di lobby), ma la mutazione antropologica del movimento che un tempo elogiava il genio del ribelle Dario Fo, premio Nobel per la letteratura nel 1997 e oggi si ritrova a celebrare un comico che ha detto di Berlusconi: “Io gli vorrò sempre bene e lo voterò sempre, anche se un giorno ammazza 122 persone”. Non è la prima volta che Di Maio pesca dagli artisti più popolari: è lui a farsi un video mentre canta in macchina “Finché la barca va,” dopo che Orietta Berti lo definì “bellissimo e bravissimo”; è lui a condividere il tweet progoverno di Jerry Calà: “Tutti in tv si chiedono dove troverà questo governo i soldi per mantenere le promesse elettorali. Basterebbe che il precedente governo gentilmente svelasse dove ha preso tutti quei miliardi per salvare le banche…”, commentando con la frase “Libidine, doppia libidine”.
Il ministro del Lavoro ha scelto di associare all’Unesco, organo che tutela i beni culturali nel mondo, un attore che ha fatto la sua fortuna nei panni dell’italiano medio, un po’ sfigato, che chiamava i gay “fri fri”, guardava le donne spogliarsi dal buco della serratura e, qualche volta, aveva la fortuna di toccare il corpo di Edwige Fenech. E a proporre questa retorica StraPaese degli italiani brava gente alla Pane amore e fantasia fatta di medici in famiglia, nonni “liberi” e preti che risolvono crimini in tv è un trentaduenne che conosce a memoria tutti i film di Lino Banfi e qualche volta fatica con il congiuntivo. Dimostrando che quei millennials descritti come la generazione più istruita ed esterofila di sempre amante dell’erasmus e delle serie tv di Netflix, non è il Paese reale, ma una minoranza mediaticamente più rumorosa.
I cinque stelle soffrono il populismo mediatico di Salvini e nelle ultime settimane hanno giocato a chi ce l’ha più nazionalpopolare.
I cinque stelle soffrono da tempo il populismo mediatico di Salvini e nelle ultime settimane hanno giocato a chi ce l’ha più nazionalpopolare. Se Salvini indossa la tuta dei Carabinieri, Bonafede mette quella della polizia giudiziaria. Se il ministro dell’Interno ospita nel suo ufficio Albano, chatta con Francesca Cipriani su Instagram e fa i complimenti alla Cuccarini per la fine analisi politica pro Lega, Luigi Di Maio risponde nominando Banfi delegato Unesco. La reazione è sempre sproporzionata all’azione dell’alleato di governo. Questa corsa ad accaparrarsi i totem della pancia del Paese potrebbe non essere la strategia migliore per i grillini. Perché gli italiani preferiscono sempre l’originale (la spontaneità di Salvini) alla copia preparata a tavolino. In ogni caso il Paese reale non è mai stato così tanto rappresentato dai politici, e forse anche la sua povertà culturale.