Il bastone. L’ideologia consolidata che mi attizza le palle è questa. La storia fanciullesca e rimbambita del ‘buon selvaggio’, l’idea che esistano civiltà dei primordi adornate in purezza, sacrificate sull’altare incrostato di sangue dell’uomo bianco. In effetti, l’uomo – genericamente: quello occidentale – è uno stronzo con l’unico obbiettivo faustiano di propagare il male, di cui è schiavo. Colonnello di questa ideologia, schiavista del perbenismo, è lo scrittore cileno Luis Sepúlveda, che in Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa, con piglio razzista, elogia i lafkenche, popolo di etnia mapuche – “loro prendono dalla riva il necessario per vivere e ringraziano la generosità del mare” – e sputa su tutti gli altri, balenieri brutti & cattivi. La morale di Sepúlveda, l’Esopo biecamente ambientalista, è ovvia: “gli uomini sono l’unica specie che attacca i propri simili”, gli uomini sono quelli che oltre a uccidere se stessi sterminano, per coltivare i propri prelibati fini, il resto del creato (“erano tante le imbarcazioni che solavano i mari per ucciderci”).
Sepúlveda divulga la propria ideologia attraverso il più smaliziato e vile dei ‘generi’: la fiaba. O meglio, il mito. Solo che la sua fiaba, il suo mito, è viziato: manca l’autentica tragedia – non esistono uomini più puri di altri, siamo tutti macchiati; anche le balene, che il bel Luis descrive come immacolate, vivono uccidendo, non sono più ‘buone’ di altre creature – manca la spericolatezza del miracolo. Con tutto il rispetto per i lafkenche, infatti – e chi non parteggia per loro, la “Gente del Mare” che sguazza con le balene? – c’è un sano eroismo anche nei balenieri dell’Ottocento (a cui ipoteticamente si riferisce la storia), una rude, frugale lotta contro la natura, a rischio di morte (mai letto Joseph Conrad?), dove il più debole (l’uomo) cerca di far fronte al forte (la balena) per rubargli la luce (lo spermaceti utile a fabbricare le candele e a gasare le lampade ad olio), in un contesto naturale (l’oceano) ostile.
L’uomo è malvagio in un cosmo dominato dal male, direbbe Leopardi: ma questa – ragionevole – non è una buona novella per gli abbonati a Greenpeace e per i genitori che vogliono cullare i pargoli tra aurei principi ipocriti (tutto il mondo è buono, tranne l’uomo). Oltre che etico, il difetto di Sepúlveda è poi omericamente estetico. Il libro, che intende raccontare la storia di Moby Dick – meglio: ‘Mocha Dick’ – per voce della balena bianca, è proprio brutto, frettoloso, scritto per ragazzini cretini, con una ricerca delle fonti francamente infantile (piuttosto, fate il vostro giro in baleniera: l’editore Damocle ha pubblicato pochi mesi fa Mocha Dick. O la balena bianca del Pacifico, il racconto della caccia all’immane capodoglio sotto gli occhi dell’esploratore americano Jeremiah N. Reynolds, edito in origine nel 1839, oppure Il naufragio della baleniera Essex di Owen Chase, stampa SE, almeno sentite odore di sale e puzza di balenottera, non l’acre nitrito dell’ideologo). Sepúlveda si dimentica che soltanto l’essere eretto, l’uomo, questa creatura di merda e di angelo, riesce a meravigliarsi di fronte allo sterminio di luce di un tramonto, solo l’uomo riconosce all’oceano un valore biblico e alla balena l’ampiezza di un simbolo, la statura di un romanzo. Solo l’uomo sa leggere il mondo, lasciandosi inondare dal suo fragore. Meglio Herman Melville di una scalmanata truppa di ambientalisti tronfi di buone intenzioni. Fa meglio al pianeta.
Luis Sepúlveda, Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa, Guanda 2018, pp.116, euro 14,00
Gli adulti tengono al guinzaglio i figli, ecco la verità, perché la letteratura non ammette generi, è un inno allo spericolato, porta il disordine, non certo il benessere morale, cresce antieroi solitari non certo bravi cittadini sottomessi ai voleri del più forte, inaugura le anarchiche esigenze del singolo individuo, è un baratro verso l’ignoto, porta all’insano e all’inconsueto
La carota. La cosiddetta ‘letteratura per ragazzi’, fruttuosa dal punto di vista editoriale, esiste perché gli adulti, così, con gesto beato, possono imprigionare l’intelligenza dei figli, perché così, lucrando sull’ingenuità dei piccoli, i grandi fanno soldi. Quella della ‘letteratura per ragazzi’, in effetti, l’ho sempre trovata una barbara moda: non basta liofilizzare Lord Jim in un insulso adattamento o pagare un illustratore brioso per fare un libro ‘per ragazzi’.
La ‘letteratura per ragazzi’, semplicemente, non esiste, esiste, semmai, la letteratura in cui sono protagonisti i ragazzi (Il giovane Holden, per dire, oppure Le avventure di Tom Sawyer, oppure Veglia all’alba di James Agee, L’arpa d’erba di Truman Capote, il magnetico Chiamalo sonno di Henry Roth…), e ad ogni modo a forza di fare bambinate siamo passati da Joseph Conrad, Rudyard Kipling, Robert Louis Stevenson al Diario di una schiappa e a Harry Potter, quello che leggevano i ragazzi un dì ora si studia in università.
Gli adulti tengono al guinzaglio i figli, ecco la verità, perché la letteratura non ammette generi, è un inno allo spericolato, porta il disordine, non certo il benessere morale, cresce antieroi solitari non certo bravi cittadini sottomessi ai voleri del più forte, inaugura le anarchiche esigenze del singolo individuo, è un baratro verso l’ignoto, porta all’insano e all’inconsueto. I ragazzi, i bambini, non hanno bisogno delle favole della buona notte, che cancellano l’oscurità con la calce del conformismo e della bella morale: vogliono rischio, paura e sfida, i figli.
I genitori, per dire, dovrebbero leggersi Artico (stampa Neri Pozza), il memorabile reportage di Marzio Mian, uno che mi ha detto, “erano gli anni della moratoria alla caccia delle balene, mi è venuto in mente di imbarcarmi con i balenieri, in Norvegia, nell’isola di Rost, volevo capire la loro vita, le loro ragioni”, e da lì comincia il suo odisseico viaggio nel grande Nord. Per cercare di capire. Le ragioni della natura e dell’uomo, dei buoni e dei cattivi, tutti sulla stessa baleniera. Ecco perché si scrive, perché si vive, scevri da ideologismi. Per capire.
I figli, invece, costruiscano cerbottane con il libro di Sepúlveda, mica sono scemi, vadano a cavalcioni della vera balena bianca, la sola, Moby Dick, scaturita dall’oceanica mente di Herman Melville. Lo so, è difficile – ma i ragazzi sono ragazzi perché amano il difficile e i loro occhi sono una sassaia. Ci sono pagine di vampiresca bellezza in Moby Dick, c’è il bene e il male, l’ossessione e la malia, la grandezza e la dedizione, la ferocia e la pietà, l’uomo, Dio, la natura, l’oceano come avventura, come confessionale, come espiazione, come grande libro della colpa e della gloria.
Ad esempio, il fatidico capito 42, quello che sonda La bianchezza della balena – leggetelo come vi pare, anche nell’ancestrale traduzione di Cesare Pavese, io preferisco quella del poeta Alessandro Ceni, stampa Feltrinelli – dove il niveo manto di Moby Dick rimanda al “latteo destriero” delle “tradizioni indiane”, poi all’“albatro”, poi all’“orso bianco dei poli” e allo “squalo bianco dei tropici”, e poi a “Lima la più inesplicabile e triste città che esista” e poi alle “bianche profondità della Via Lattea”, insomma, la balena bianca è il sunto dell’universo mica il presunto capodoglio di Sepúlveda che stende la sua lagnosa nenia lungo i sette mari. Questa è la letteratura. Contro i letterati dell’ideologia, più temibili dei balenieri.
Herman Melville, Moby Dick, traduzione a piacere