Come già successo in passato, Alitalia sarà uno dei temi dell’agenda politica del 2019. E ora che la società dovrà essere comprata da un nuovo acquirente e prima o poi dovrà essere restituito l’ultimo maxi prestito da 900 milioni, il grosso della partita si giocherà sul rapporto tra la compagnia e lo Stato. In più occasioni il ministro Di Maio ha dichiarato di voler far entrare Ferrovie dello Stato (e altre partecipate pubbliche) nella futura compagine azionaria, convertire in azioni del Ministero dell’Economia una parte della somma che Alitalia deve restituire allo Stato e far finanziare a Cassa Depositi e Prestiti l’acquisto e il leasing di nuovi aerei. Tutte queste mosse servirebbero a tenere il 51 per cento dell’azienda in mano ad aziende e istituzioni italiane. Per metà è una storia già vista: circa dieci anni fa la cordata di capitani coraggiosi (sostenuta da Berlusconi per difendere l’italianità di Alitalia) rilevava il marchio e i principali asset della compagnia, segnando di fatto la privatizzazione della stessa. Per l’altra metà è invece il contrario di ciò che abbiamo vissuto allora: questa volta le aziende italiane a cui dovrebbe andare un’importante fetta della compagnia sarebbero aziende pubbliche.
Tuttavia, basta mettere in fila i dati per capire che lo Stato dovrebbe cogliere quest’occasione per chiudere una volta per tutte il rapporto morboso che ha avuto negli anni con l’ex compagnia di bandiera. Il lettore tenga presente che da adesso tutti gli importi saranno espressi in euro del 2017.
Lo Stato dovrebbe cogliere quest’occasione per chiudere una volta per tutte il rapporto morboso che ha avuto negli anni con l’ex compagnia di bandiera. Alitalia è costata allo Stato ben 10,6 miliardi tra il 1974 (dati più vecchi disponibili) e il 2017
Alitalia è costata allo Stato ben 10,6 miliardi tra il 1974 (dati più vecchi disponibili) e il 2017. Nello stesso periodo lo Stato ha guadagnato da Alitalia solo 1,2 miliardi. Di questi, sono solo 240 milioni i dividendi incassati, mentre i restanti 980 milioni sono i soldi incassati dallo Stato tutte le volte che ha ceduto azioni o obbligazioni della compagnia.
Su questi numeri si dovrebbero fare le prime due riflessioni. Primo, il Ministro dello Sviluppo Economico sbaglia quando dice che “Alitalia è stata un Bancomat della politica per troppi anni”. Sembra piuttosto il contrario, cioè che lo Stato sia spesso stato il bancomat della compagnia. Secondo, il fatto che oltre l’80 per cento dei proventi ottenuti dallo Stato grazie alla partecipazione nella compagnia siano dovuti alla vendita di obbligazioni e azioni mostra che la compagnia è stata conveniente per le casse pubbliche principalmente nelle occasioni in cui lo Stato si è liberato degli interessi che aveva nella società.
Due elementi ulteriori ci aiutano a capire perché il rapporto tra Stato e compagnia può essere definito “morboso”. In primo luogo, le poche volte che la società ha fatto degli utili dagli anni 90 a oggi sono state tutte accompagnate da generosi interventi dello Stato. In secondo luogo, dei 10,6 miliardi che lo Stato ha speso per Alitalia dal 1974 ad oggi, il 48 per cento sono stati spesi dopo la privatizzazione del 2008 per prestiti ponte, cassa integrazione, operazioni di tutela dei risparmiatori, interventi di ripiano del passivo e pure per una piccola partecipazione di Poste Italiane del 2 per cento. Questi dati dimostrano come il rapporto di stretta dipendenza fra compagnia e Stato sia continuato ad esistere anche dopo la privatizzazione e sia durato fino a oggi.
Negli altri paesi non è affatto frequente che lo Stato abbia partecipazioni nelle società che si occupano di trasporto aereo
A tutti questi dati si aggiunga che mentre il governo vuole tornare a una grossa partecipazione pubblica nella compagnia, negli altri paesi non è affatto frequente che lo Stato abbia partecipazioni nelle società che si occupano di trasporto aereo. Stando ai dati (del 2016) dell’agenzia delle nazioni unite che si occupa di aviazione civile, paesi come Belgio, Germania, Irlanda, Spagna, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti non hanno partecipazioni nelle loro compagnie di bandiera.
Questa sfilata di dati dovrebbe essere sufficiente per convincersi che sarebbe davvero il caso che lo Stato mettesse giù le mani dalla compagnia una volta per tutte, anche se purtroppo le dichiarazioni del Ministro Di Maio sembrano andare nella direzione opposta. Bisognerebbe capire che mischiare gli interessi politici a quelli societari non ha mai fatto bene né allo Stato (che ci ha rimesso enormi quantità di denaro, soprattutto da metà degli anni ‘90), né alla compagnia, che non è più riuscita a tornare competitiva nel mercato. Questa è davvero l’occasione giusta per tirarsi fuori dai giochi e lasciare che il libero mercato restituisca alla compagnia il futuro che questa merita, senza che se ne faccia, ancora una volta, una questione politica (o elettorale).
*Ricercatore presso l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani