Porti chiusi, mare apertoNon siete assolti: ecco perché ogni morto nel Mediterraneo è responsabilità di tutta l’Europa

Ci siamo presi la responsabilità dei vivi, e ora ci stiamo prendendo quella dei morti, nell’indifferenza complice del resto del continente. Porte chiuse o aperte, non funziona comunque: la questione migranti o la risolviamo assieme agli altri Paesi europei o non si risolverà mai

Sulle home page dei principali giornali europei – Le Monde, Le Figarò, lo Spiegel, il Pais – non c’è una riga sulle nuove tragedie del Mediterraneo che in poche ore hanno fatto quasi duecento morti né del tragico Sos dal barcone rimasto alla deriva davanti alla Libia fino a tarda notte, a dimostrazione che questa vicenda, oggi ancor più che in passato, è giudicata alla stregua di un affare interno italiano. Non merita l’attenzione dei francesi, dei tedeschi, degli spagnoli. Non impegna ad esercizi di coscienza i cittadini di Berlino, Parigi, Madrid. Nessuno dei leader politici dell’Unione, di governo o di opposizione, ieri ha ritenuto un dovere parlarne: il macigno della responsabilità morale di quei naufragi e di quelle vittime sarà lasciato per intero sulle spalle nostre e della Libia, esattamente come in passato è stato attribuito a noi il peso materiale dei salvati, dei superstiti, degli sbarcati.

Un esecutivo lungimirante guarderebbe a questo dato con preoccupazione, perché se la vecchia linea di Angelino Alfano, quella delle porte aperte, caricava l’Italia di oneri insopportabili, la stagione dei porti chiusi e degli allarmi inascoltati trascina con sé un rischio immateriale che nessuna nazione moderna può sopportare. Il Paese che lascia morire uomini, donne e bambini in mare; che non risponde alle grida di aiuto; che si trincera dietro a dati burocratici come i confini delle aree Sar per non vedere quello che accade nel cortile di casa sua, o per ignorarlo qualora un aereo, una nave, un addetto radio, se ne accorgano per caso.

Anche per questo i nostri alleati europei hanno smesso di preoccuparsi della piega presa dagli eventi. Noi ci prendiamo la responsabilità dei morti (come due anni fa dovevamo farci carico dei vivi), loro potranno in ogni caso mostrare le mani pulite ai loro cittadini

L’equazione “meno sbarchi, meno morti” perde senso davanti alle vittime accertate di questo weekend, 117 tra il 18 e il 19 gennaio al largo di Tripoli e 53 tra Spagna e Marocco nella notte precedente e dopo il disperato grido d’allarme dei moribondi al largo di Misurata, soccorsi dai libici stessi dopo l’aut aut del premier italiano. Anche se le percentuali confermassero il valore dissuasivo dei mancati salvataggi (e al momento non è così), l’idea di lasciar affogare in mare persone, a centinaia, per tutelare i confini non può essere giudicata da nessuno una soluzione politica, almeno in epoca moderna. Qui non si tratta di danni marginali. È una strage. Aggravata da orribili dettagli. Il mare gelido, l’ipotermia, la denutrizione dei naufraghi reduci da mesi di prigionia e violenze. Perché noi italiani dovremmo, soli, farci carico di tutto ciò? Il governo non si accorge che rivendicando come suo “merito” tutto questo, addossa sulle spalle dell’Italia un fardello di disumanità che non meritiamo e che ci si ritorcerà contro?

Anche per questo i nostri alleati europei hanno smesso di preoccuparsi della piega presa dagli eventi. Noi ci prendiamo la responsabilità dei morti (come due anni fa dovevamo farci carico dei vivi), loro potranno in ogni caso mostrare le mani pulite ai loro cittadini. Sarebbe il momento di rovesciare la narrazione, di dire chiaro alla Francia, alla Germania, alla Spagna e agli altri Paesi fondatori dell’Unione che quegli annegati e quel Sos – «Aiutateci, stiamo congelando» – riguardano anche loro, che l’Italia rifiuta il ruolo di aguzzino, che pretende di riaprire il dibattito sui canali di immigrazione legali in Europa, che la tragedia del Mediterraneo è anche “roba loro” ed è anche loro la responsabilità di fermarla.

Per molto tempo gli italiani si sono gingillati nella contrapposizione tra buonismo e cattivismo, una visione limitata e fuorviante, cavalcata da classi dirigenti modeste e innamorate della semplificazione. Ora che entrambe le soluzioni sono state sperimentate e tutte e due hanno dimostrato la loro insufficienza, forse è possibile capire che sulla questione dell’immigrazione non è in gioco il segno dei nostri sentimenti – buoni contro cattivi – ma la nostra dignità di Paese. Non possiamo essere la Turchia, dove vengono ammassati come spazzatura i profughi delle guerre e delle carestie, ma non possiamo neanche essere la Libia, che lascia affogare donne e bambini nel mare gelido di gennaio, o il Niger che li fa morire di sete nel deserto dopo averli depredati. Non siamo tribù costiere che si fanno carico dei lavori sporchi che l’Europa non vuole fare. Ogni minuto perso nel dirlo, e nel dimostrarlo, è un passo che ci allontana da noi stessi e dall’idea di civiltà che bene o male ci appartiene da qualche millennio.

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