Le home di tutti i social sono intasate di buoni propositi per il 2019: andare a correre la mattina appena svegli, mangiare meno carne rossa e più germogli di soia, scrivere il libro che vuoi scrivere dal 1999. Cose così. O cattivi propositi: riuscire finalmente a suicidarsi, farla pagare a quella stronza che mi ha lasciato, ammazzare il cane del vicino così la smette di abbaiare. Anche se lo sport preferito si conferma prendere in giro chi condivide i propri propositi, buoni o cattivi che siano.
Oltre al carnevale umano social, per fortuna, c’è chi sceglie l’oblio. Una pillola rosa, una bianca, una verde penicillina. Chiusa in casa, dentro al letto, in un sonno semi-continuo indotto da farmaci. Per un anno intero. La protagonista dell’ultimo romanzo di Ottessa Moshfegh, My year of rest and relaxation (Penguin), lo ha fatto. Moshfegh, una delle più promettenti scrittrici americane, classe ’81, padre iraniano madre croata, un bel neo vicino al naso, per dar vita ai suoi personaggi pesca nel disagio.
In Eileen, il suo psico-noir del 2015 finalista del Man Book Prize, la protagonista divora lassativi e si fascia i genitali; il marinaio ubriaco McGlue, in un altro dei suoi libri, tira craniate al muro per farsi passare i brutti pensieri. I suoi personaggi respingono se stessi ma anche chi si trova a leggere le loro stranezze. C’è una specie di circolo masochista che si mette in atto: com’è repellente, vorrei chiudere il libro, mannò andiamo avanti, com’è repellente. Loop.
In un’intervista sul New Yorker Moshfegh confessa scocciata: “Volevano che in qualche modo spiegassi loro (ai lettori in uno dei suoi reading) come ho potuto costruire un personaggio femminile così disgustoso”. Come se le femmine non potessero essere disgustose, odiose, ciniche fino al midollo. La protagonista/narratrice senza nome di My year of rest and relaxation è proprio così. Ma è anche bella, bionda, magra, giovane, appena laureata alla Columbia, con un attico nell’Upper East Side e una rendita che le permette di lasciare il suo lavoro snob in una galleria d’arte a Chelsea, non andare più a party esclusivi o a reading con banchetti a base di quinoa, per starsene un anno a dormire. Le uniche altre azioni consentite sono guardare vecchi film con Whoopy Goldberg, trattare male la sua migliore amica che passa a trovarla di tanto in tanto, scendere a prendere bevande calde al chiosco degli egiziani sotto casa, ordinare junk food, comprare lingerie online e andare dall’analista trovato sulle Pagine Gialle per farsi prescrivere i farmaci che le consentono di dormire la maggior parte del tempo e le dà consigli saggi come “Chiama il 911 se succede qualcosa di brutto”.
“Volevano che in qualche modo spiegassi loro come ho potuto costruire un personaggio femminile così disgustoso”. Come se le femmine non potessero essere disgustose, odiose, ciniche fino al midollo. La protagonista/narratrice senza nome di My year of rest and relaxation è proprio così
“Tre litio, due Ativan, cinque Ambien” è un “Bel melange, una lussuosa caduta libera nell’oscurità vellutata”, forse un altro Ativan “Per aggiungere una brezza fresca, leggermente effervescente… Mi viene l’acquolina in bocca. Un buon sonno americano”. Ma anche Neuroproxin, Seconol, Nembutal, Librium, Placydil, Noctec, Miltown. Come De Lillo ha inventato il Dylar per placare la paura della morte in White Noise, lei ha un arsenale di psicofarmaci immaginari dai nomi tragicomici che ricordano i vizi capitali come Valdignore, Prognosticrone, Maxiphenphen e Silencior. O Infermiterol, il suo preferito: una sostanza in grado di indurre tre giorni di completo blackout, che la fa entrare in quel bocciolo di velluto nero di cui parla. Non ha paura degli effetti indesiderati, li legge tutti, li recita ad alta voce davanti allo specchio, recita le negazioni: se prendi questo farmaco non potrai bere nemmeno un succo di frutta altrimenti potresti iniziare a vomitare palle di pelo, non assumere questo farmaco se ti sei appena fatta un bagno bollente altrimenti potresti ricoprirti di bolle verdi. Ma l’unica cosa che le importa è dormire. Il blackout di velluto.
La reazione immediata ai monologhi di questa ragazza privilegiata, viziata, annoiata, cinica come solo certi newyorkesi sanno essere, è di fastidio (il circolo masochista di cui si parlava). Il lettore è disgustato, fa facce come se avesse mangiato un limone. Lo stesso disgusto che la senza nome sputa fuori verso tutto e tutti – persino la sua unica amica Reva è presentata come una ragazza priva di sostanza, fissata con le apparenze, troppo dentro quel mondo che lei vorrebbe eliminare. Debole, “needy” – aggettivo usato sempre in senso negativo: “Sei bisognosa, sembra frustrante”, dice.
“La grazia è un dono, o ce l’hai o non ce l’hai. Io ce l’ho. Reva no”, cerca di appropriarsene ma non ci riesce né con un nuovo taglio di capelli alla moda né con le borse contraffatte griffate. Perché “Studied grace is not grace”. Descrivendo il suo ex Trevor riesce a ridicolizzare sia lui che tutti gli altri uomini che ha conosciuto al college: Trevor è un disastro perché preferisce il sesso orale a quello vaginale (un po’ da gay, no?), ma è sicuramente meglio dei nerd hipster che leggono David Foster Wallace annotando i loro pensieri su un Moleskine facendo passare la loro insicurezza per sensibilità.
Io faccio questo lavoro ma è cacca, lei è la mia amica ma è cacca, io esco con lui ma è cacca. Una serie di sto dicendo cose orribili ma le sto dicendo con quel pizzico di ironia che dice e disdice. Ai reading newyorkesi della Moshfegh c’è gente di tutti i tipi. Alcuni le chiedono come mai continua ad inventarsi personaggi femminili così disgustosi. Altri ridono alle battute che i primi trovano disgustose. L’autrice anche, fra una frase e l’altra, sorride, si ferma un attimo e dice: “È strano parlare in questo modo, mi fa sentire odiosa”.
Le sue motivazioni non sono suicide né depressive, sono trasformative. Crede che se riuscirà a rimanere in quella crisalide farmaceutica abbastanza a lungo, ne emergerà trasformata, spera che questa ibernazione le permetterà di affrontare il mondo con più forza – con meno ansie, meno dubbi, senza sentirsi continuamente giudicata, senza dover sempre dimostrare.
Ad un certo punto vorresti che la senza nome dormisse proprio tutto il tempo, che la voce narrante parlasse solo delle lenzuola gialle, della patina sui suoi denti, della polvere che la avvolge mentre sonnecchia sul letto. Perché questo atteggiamento catatonico la tiranneggia ma è anche il motivo per cui decide di non uscire più di casa. Le sue motivazioni non sono suicide né depressive, sono trasformative. Crede che se riuscirà a rimanere in quella crisalide farmaceutica abbastanza a lungo, ne emergerà trasformata, spera che questa ibernazione le permetterà di affrontare il mondo con più forza – con meno ansie, meno dubbi, senza sentirsi continuamente giudicata, senza dover sempre dimostrare. Questo, forse, è uno dei desideri per il 2019 di qualcuno ma lo era anche nel 1859 o nel 1670. Un desiderio universale, senza tempo.
La protagonista del libro cerca di realizzarlo utilizzando una delle tecniche millenarie che hanno permesso agli individui di eseguire, coi propri mezzi, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima. Dagli stiliti che s’impalavano nel deserto e rimanevano lassù mesi agli esercizi di preparazione alla morte degli stoici – si fingevano morti per giorni, su teli bianchi, con i doni vicino, i cari che piangevano ma e ridevano intorno, e loro immobili. Per settimane.
La protagonista del romanzo vuole fare arte e sa che per farla il cinismo non può essere l’unico ingrediente, sa che deve riuscire a vedere la bellezza. La tecnica ascetica contemporanea che adotta, svuotata dalla promessa ultraterrena, crea un vuoto intorno a lei, un vuoto che se ne frega del giudizio, che non vuole essere riempito. Le permette di tornare alla felice mancanza di scopo che è la vita umana come tale. Come Oblomov (che sarebbe il nome perfetto di un altro farmaco immaginario) desidera solo starsene a letto o sul divano, oziare, dormire, non preoccuparsi dei vestiti da mettere, dei trucchi, di farsi i peli o lavarsi i denti.
Rilassare i muscoli, i nervi. Non dover fare niente, potersi guardare l’ombelico tutto il giorno. C’è qualcosa in questo solipsismo liberatorio di simile al benessere – sei il centro dell’universo e ogni altra cosa, gli eventi, i sentimenti degli altri, sono stimoli sempre più flebili.
Tanto fuori c’è Bill Clinton alla fine della sua presidenza. Ci si chiede chi è che dorme davvero, lei o gli americani ottimisti, che si affannano là fuori. Il romanzo è ambientato fra il 2000 e il 2001. Culmina con l’attentato alle Twin Towers.