Cinema e PoliticaIl diavolo veste Cheney: correte a vedere Vice, se volete capire come ci hanno fregati negli ultimi trent’anni

Il film di Adam McKay, con uno straordinario Christian Bale, è il riassunto perfetto della parabola politica che ci ha regalato la crisi economica e Trump: la politica subalterna all’economia, i media come mezzi di propaganda, il caos come dottrina per governare il mondo. Qualcosa non ha funzionato

Intrappolati in un presente dove ogni centimetro quadrato è un luogo di conflitto, siamo troppo occupati a sopravvivere all’incendio quotidiano per fermarci a riflettere sul senso generale degli avvenimenti. Così la realtà finisce per sembrarci una concatenazione di eventi casuali, indipendenti l’uno dall’altro, azzerando la nostra coscienza critica e spalancando le porte ai mostri. È questo il senso – o uno dei sensi – di Vice, il film scritto e diretto da Adam McKay per cui Christian Bale, nei panni dell’ex vice Presidente americano Dick Cheney, ha appena vinto il Golden Globe come miglior attore in una commedia.

Chiariamoci: se in Vice si ride lo si fa amaramente, proprio come amaramente si rideva in The Big Short, il precedente film dell’autore e regista americano che nel 2015 spiegò meglio di tutti la crisi dei mutui subprime. Stavolta l’obiettivo è ancora più ambizioso: spiegare come, all’inizio degli anni ’80, nella politica americana sia balenata una scintilla da cui derivano le fiamme che divampano ovunque nel mondo di oggi. Non ci sono complotti svelati o clamorosi scoop: McKay si limita a unire i puntini, mettendo in fila fatti noti e meno noti, per dimostrare come il filo rosso di un periodo storico che parte da Nixon e arriva fino a Donald Trump sia proprio quel Dick Cheney che, grazie a una riservatezza andreottiana, era riuscito finora a passare quasi inosservato.

Arrivato a Washington negli anni ’70 dal Wyoming – lo Stato americano in cui non solo le armi sono più diffuse, ma il cui tasso di diffusione è triplo rispetto allo Stato secondo in classifica – l’allora trentenne Cheney sale le scale della politica in modo fortunoso, e tra un arresto cardiaco e l’altro, a cavallo del nuovo decennio, si ritrova membro della Camera dei Rappresentanti. Per l’America – e per il resto del mondo – si tratta di un momento fondamentale: fino a quel momento, uomini di Stato come Henry Kissinger hanno esercitato il potere in modo contradditorio e a tratti terribile, ma hanno sempre avuto come bussola l’interesse della Nazione.

La generazione successiva ha un’idea diversa: credendo ciecamente nella capacità del mercato di autoregolamentarsi, vuole mettere lo Stato al servizio delle grandi corporation, piegando sistematicamente l’interesse nazionale a quello dei privati. In cambio anche, ovviamente, di giganteschi emolumenti personali. Ed è qui che Cheney capisce prima di tutti quello che gli altri capiranno negli anni o nei decenni successivi: se le cose dovessero andare nel verso sperato, l’America entrerebbe in una fase nuova, con regole del gioco completamente diverse. Il mondo si trasfomerebbe in un castello di carte – o una torre di tazzine da caffè, come mostrato nel film – dove sarebbe impossibile fare previsioni. Uno scenario caotico, insomma, in cui lui potrebbe diventare l’uomo più potente della Terra.

Il primo atto – la prima tazzina della torre – è la campagna per l’abrogazione della “fair doctrine”, una legge del 1949 per cui in un programma TV ogni tema di pubblica rilevanza deve essere rappresentato in modo “onesto, equo e bilanciato”. L’abrogazione della “fair doctrine” è epocale: la nascita di Fox News, avvenuta subito dopo, segna l’inizio dell’Età della Propaganda, il mondo in cui ogni fatto, anche il più insignificante, viene raccontato attraverso la lente deformante dell’ideologia. Con la crisi dell’Urss e il toro di Wall Street scatenato, l’obiettivo successivo si chiama riforma fiscale: per tutto il decennio l’amministrazione Reagan (un Presidente a misura di propaganda) si impegna da un lato ad abbassare la pressione fiscale su multinazionali e grandi patrimoni, dall’altro a liberalizzare i capitali che tali multinazionali e grandi patrimoni possono investire per finanziare le campagne elettorali.

L’incesto tra politica ed economia diventa così ufficiale (e bipartisan): Cheney viene nominato Ceo di Halliburton, una delle più grandi corporation del petrolio. Sono gli anni ’90, e quello che soltanto un decennio prima pareva un sogno, una tazzina dopo l’altra è diventato realtà: al punto che, grazie alla Corte Suprema, un bifolco come George W. Bush, piedi sul tavolo e dita sporche di salsa barbeque, viene eletto Presidente. Per Cheney si tratta di un trionfo. In teoria dovrebbe fare il vice Presidente – un ruolo puramente di facciata – ma in pratica, grazie a un accordo segreto, sarà lui a decidere in materia di tasse, burocrazia e politica estera. Gli Stati Uniti, di fatto, passano sotto la sua giurisdizione.

Con tanti saluti alla capacita’ di autoregolamentarsi, l’assenza di ogni regola ha colpito a morte l’economia mondiale: alla speranza e all’ottimismo degli anni ’80 si sostituiscono una rabbia e un rancore senza fine. Grazie a Cheney, e a quelli come lui, tutto quello che poteva essere distrutto è stato distrutto

Poi arriva l’11 settembre del 2001. Mentre tutti sono imprigionati nel terrore del momento, ancora una volta Cheney vede oltre. Sotto le macerie delle Torri Gemelle, c’è una serie pressoché infinita di opportunità da cogliere. Pochi mesi prima infatti, Cheney ha incontrato di nascosto gli altri Ceo delle più grandi multinazionali dell’energia. Per crescere ancora, c’è bisogno di mettere le mani sulle risorse naturali del Medio Oriente. Così, sotto la sua attenta regia, gli Stati Uniti costruiscono una delle più grandi operazioni di propaganda della Storia, che porta il 70% degli Americani a convincersi che davvero Saddam Hussein possa radere al suolo l’Occidente da un momento all’altro con una testata nucleare.

Il resto – come si dice – è Storia: gli USA invadono l’Iraq, Saddam viene ucciso, le corporation si spartiscono il Paese, pregustando un’operazione simile in Iran. Halliburton, nel frattempo, aumenta i profitti del 500%. Non è abbastanza, non è mai abbastanza: l’emergenza permette al governo di sbarazzarsi di seccature come la Convenzione di Ginevra sulla tortura o di approvare una legge, il Patrioct Act, che permette alle agenzie di sicurezza di avere accesso ad ogni singola telefonata o email di ogni cittadino. La rielezione di Bush del 2004 è l’apogeo del mondo secondo Dick Cheney, quello dove, come in Fight Club, “l’unica regola é che non ci sono regole”. La torre di tazzine, ormai, è alta fino al soffitto.

Ed è proprio allora che improvvisamente crolla al suolo. La guerra in Iraq causa la nascita dell’Isis. Che causa la crisi in Siria e in Libia. Che causa quella dei profughi. Che causa il populismo. L’arrivo dei social network porta alla nascita di un nuovo modo di fare propaganda: come la sua generazione aveva rottamato quella di Kissinger, quella di Cheney viene spazzata via dai nuovi “campioni della gente” che il consenso se lo creano direttamente, stando sempre sotto i riflettori e non rinchiusi nelle oscure sale del potere, assecondando si le multinazionali ma purchè il tutto sia fatto in nome della “ggente”.

Intanto, con tanti saluti alla capacita’ di autoregolamentarsi, l’assenza di ogni regola ha colpito a morte l’economia mondiale: alla speranza e all’ottimismo degli anni ’80 si sostituiscono una rabbia e un rancore senza fine. Grazie a Cheney, e a quelli come lui, tutto quello che poteva essere distrutto è stato distrutto (incluso il suo cuore). Ma a ben vedere, come dice il Cheney/Christian Bale nel monologo finale, la colpa non è nemmeno sua. La colpa è nostra, che abbiamo vissuto tutto questo e nemmeno ce ne siamo accorti, impegnati a litigare come i capponi dei Promessi Sposi.

L’inganno migliore del diavolo è aver convinto l’umanità che egli non esiste” dice Kevin Spacey nei Soliti Sospetti. Non è un caso che Bale, per interpretare Cheney, si sia ispirato proprio a Satana.

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