Negli ultimi giorni si è tornato a parlare di curdi. Meno male verrebbe da dire, considerate tutte le volte che ci siamo dimenticati di loro. Sfortunatamente però, il loro ritorno agli onori della cronaca occidentale non avviene nel migliore dei contesti. Trump ha infatti deciso di ritirare le truppe americane dalla Siria, dichiarandosi pronto a “devastare economicamente” la Turchia qualora Ankara intendesse agire militarmente contro i principali alleati degli Stati Uniti nella lotta allo Stato Islamico, le Unità di Protezione Popolare (YPG e YPJ), la milizia a maggioranza curda che con l’appoggio militare ed economico americano ha condotto la maggior parte delle azioni militari contro l’ISIS in Siria.
La risposta turca non si è fatta attendere, il portavoce del presidente Erdogan, Ibrahim Kalin, su Twitter ha infatti prontamente ripetuto che non vi è “alcuna differenza” tra il gruppo estremista dello Stato islamico e lo Ypg, e che Ankara continuerà a “combattere tutti loro”. Le tensioni sarebbero state alleggerite, secondo quanto dichiarato dalla presidenza turca, in un colloquio telefonico lo scorso 14 gennaio tra Trump ed Erdogan che avrebbero avviato un confronto per la creazione di una “zona di sicurezza” nel nord della Siria di 30 km. Tuttavia il panorama rimane a dir poco incerto e ambiguo. Come più volte dimostrato, le dichiarazioni del presidente americano sono volubili e inaffidabili e il rischio concreto per i curdi di pulizia etnica è più che reale, data l’intenzione di Erdogan di diminuire la componente demografica e di influenza politica che possono avere i curdi nel nord della Siria. Questi, più che in un obbligo “morale” (per quanto si possa accostare tale termine alle decisioni statunitensi) possono sperare nella volontà americana di controllare l’influenza russa e iraniana sulla regione. In caso di un totale ritiro infatti si lasciarebbe aperto un corridio importante su cui gravitano le ambizioni, tra gli altri, di Mosca e Teheran.
Ma di Ypg e Ypj (la brigata femminile delle Unità di protezione popolare) sono tornati ad occuparsene anche la stampa italiana e soprattutto la Procura di Torino. Come si era detto prima appunto, non nei migliori dei contesti. Lo scorso 4 gennaio infatti Jacopo Bindi, Davide Grasso, Fabrizio Maniero, Paolo Andolina e Maria Edgarda Marcucci hanno ricevuto un annuncio dalla Digos con il quale venivano a conoscenza che la pm Emanuela Pedrotta ha chiesto nei loro confronti l’applicazione della sorveglianza speciale per due anni con divieto di dimora nel capoluogo piemontese, in quanto ritenuti socialmenti pericolosi. I cinque, in diversi periodi, sono stati in Siria. Quattro erano arruolati nello Ypg (Marcucci nello Ypj), mentre Bindi svolgeva attività giornalistica. La richiesta delle misure di prevenzione da parte della Procura è stata motivata dall’ “Impedire che […] possano utilizzare le loro conoscenze in materia di armi e di strategie militari per indottrinare altri militanti d’area e commettere delitti contro la persona con più gravi conseguenze”, dato che tutti “si sono arruolati in un’organizzazione paramilitare”.
Argomentazione scorretta, come ci spiega uno dei diretti interessati, Jacopo Bindi, tornato dalla Siria lo scorso luglio: «Quello che dicono le carte è che essendo stati in Siria e avendo appreso l’uso delle armi siamo diventati pericolosi. Questo è cio che accumuna noi cinque, ma noi veniamo da storie differenti, da percorsi politici differenti. Ciò che ha fatto partire questo provvedimento – aggiunge – è essere stati nelle Ypg. Io non mi sono mai arruolato nelle Unità di difesa, sebbene ne sarei stato onorato. Non ho mai ricevuto un addestramento militare, ma questo la Procura deve esserselo perso».
«Cosa dobbiamo pensare – si domanda Bindi – che chi ha sostenuto la rivoluzione, la guerra contro Isis in prima persona, che chi ha sostenuto un progetto di democrazia, di pace e di valori si debba aspettare questo tornato nel proprio paese? Questo è un attacco a tutte quelle persone che stanno ancora lottando, che combattono, perdono figli, perdono la propria vita. Tra i loro valori c’è anche quello di farlo per l’umanità. Attaccando noi, si attacca anche chi si è sacrificato e chi è ancora lì»
Considerando che le misure di prevenzione non prevedono un’accusa di reato per limitare la libertà delle persone e sono collegate oggi soprattutto a fini di antiterrorismo e di antimafia è facile arrivare a pensare che siano state utilizzate come scorciatoia dalla Procura e vedere quanto il cortocircuito sia enorme. I cinque sono tutti no Tav e frequentatori di due centri sociali torinesi, l’Askatasuna e l’Asilo occupato. Tutti hanno procedimenti a carico e qualcuno di loro ha subito condanne in passato. Ma le Ypg sono considerate un’organizzazione terroristica solo dalla Turchia, e non c’è nessuna legge italiana che impedisca a qualcuno di unirsi volontariamente e, da sottolineare, gratuitamente, a un movimento senza finalità terroristiche. A chi si unisce alle Ypg viene infatti pagato al massimo il biglietto aereo e non sono, come erroneamente si legge spesso, definibili foreign fighters, come sottolinea Davide Grasso, unitosi alla lotta in Siria contro Daesh nel 2016: «L’estate in cui abbiamo liberato la città di Manbij è stata molto drammatica. Quello era il punto di collegamento tra l’Isis e la Turchia e il canale attraverso il quale entravano tutti i foreigh fighters da tutto il mondo. Dopo quell’operazione, costata alle nostre fila quasi mille morti, questo flusso si è azzerato».
Ma a quanto pare, almeno a Torino, si deve ritenere socialmente pericoloso chi è andato a combattere in prima persona coloro che hanno sparso il terrore in Medio Oriente e in Europa. «Cosa dobbiamo pensare – si domanda Bindi – che chi ha sostenuto la rivoluzione, la guerra contro Isis in prima persona, che chi ha sostenuto un progetto di democrazia, di pace e di valori si debba aspettare questo tornato nel proprio paese? Questo è un attacco a tutte quelle persone che stanno ancora lottando, che combattono, perdono figli, perdono la propria vita. Tra i loro valori c’è anche quello di farlo per l’umanità. Attaccando noi, si attacca anche chi si è sacrificato e chi è ancora lì». Un’incredulità che però non lascia spazio a rimpianti nè ripensamenti: «Non mi pento di nulla, anzi mi sento in difetto rispetto a chi continua a stare lì, a chi ci ha lasciato la vita, le gambe, le braccia, gli occhi, avrei addirittura dovuto fare di più.»
La stessa fierezza e fermezza che troviamo nelle parole di Davide: «Lo rifarei, assolutamente. È la cosa migliore che ho fatto nella mia vita. Non ho mai avuto tanta soddisfazione come nel vedere quelle persone liberate dal regime dello Stato Islamico. Vedere quelle donne che si tolgono il niqab integrale e lo bruciano, o ridono fumandosi una sigaretta davanti alla telecamera per me è un risultato enorme. Non ho mai contribuito a qualcosa di così grande e non credo succedera di nuovo. È giusto, vale la pena affrontare le conseguenze. Poi sono sopravvissuto per miracolo, la sorvegliaza speciale o il carcere sono cose che, per quanto non credo di meritare, vedo sotto un’altra prospettiva». Sono state numerose le manifestazioni di solidarietà verso i cinque torinesi che rischiano di veder limitata la propria libertà, tra cui anche un presidio di solidarietà per mercoledì 23 gennaio davanti al tribunale di Torino, in occasione dell’udienza dei cinque di fronte al giudice.