10 anni dalla morte di Eluana Englaro, e finalmente per l’Italia il fine vita non è più un tabù

È passato un decennio dalla battaglia Beppino Englaro per l’eutanasia della figlia, da 17 anni in stato vegetativo. Una battaglia che obbligò tutti gli italiani, cattolici e laici, a una riflessione sul fine vita. Oggi c’è una legge in Parlamento. Forse non si è combattuto invano

Sono passati dieci anni da quella sera del 9 febbraio 2009, quando Eluana Englaro morì nella casa di cura La Quiete di Udine, dopo 17 anni passati in un letto in stato vegetativo permanente. 6233 giorni in cui il su corpo fu invaso da mani altrui nelle sfere più intime. Eluana lo aveva sempre detto ai suoi genitori e alle sue amiche: a un’esistenza del genere avrebbe preferito la morte. Quella che aveva augurato un giorno, dopo avergli fatto visita in ospedale e mentre accendeva un cero in chiesa per lui, al suo amico Alessandro, in coma irreversibile dopo un incidente in motorino. Non per cinismo ovviamente, ma per pietà. Per Eluana, “un purosangue della libertà”, come l’ha definita il padre Beppino, quella condizione era totalmente estranea alla sua concezione di vita, di cui aveva una idea ben chiara nonostante la sua giovane età. La Englaro aveva solo 21 anni infatti quando la sua macchina finì su una lastra di ghiaccio e lei ne perse il controllo. Le lesioni derivanti dall’incidente la paralizzarono per sempre in uno stato di incoscienza permanente. Da allora, i genitori, non smisero di chiedere che Eluana venisse liberata da quella condizione “priva di morte e orfana di vita”, come la definì il poeta Guido Ceronetti nella sua poesia La ballata dell’angelo ferito.

La battaglia di Beppino Englaro, che si fece portavoce della figlia, passò per lo scontro legale, etico, istituzionale, politico. Il campo era il corpo martoriato di Eluana, per cui si batteva con strenua determinazione, come ricorda Marco Cappato: «Conoscevo bene la loro storia, Beppino era iscritto all’Associazione Luca Coscioni. Ha sempre parlato in modo preciso di ciò che voleva sua figlia. Era chiaro che sarebbe andato fino in fondo e così è stato. Ha messo in difficoltà il potere italiano, con la sua parola e il corpo della figlia. Era come lo studente davanti al carro armato in Piazza Tienanmen. Le istituzioni andarono in corto circuito».

Dopo 17 anni, 16 sentenze e lettere alle maggiori cariche di Stato infatti, la casa di cura La Quiete di Udine si rese disponibile ad accogliere Eluana e a dare inizio al protocollo di interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione. L’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, dichiaratosi mesi prima estraneo alla vicenda, decise di raccogliere le istanze del suo elettorato cattolico e dare il via, il 6 febbraio, a una corsa contro il tempo per far approvare, dopo il rifiuto di Napolitano, un decreto legge in 72 ore per far riprendere l’alimentazione artificiale.

In quei giorni isterici e convulsi, tra i più drammatici degli ultimi vent’anni nella storia del nostro Paese, fu chiaro quanto la violenza dello scontro avesse spaccato l’Italia. Da una parte chi si univa alla lotta di Beppino Englaro, dall’altra chi, tra bottigliette d’acqua e preghiere, sperava che la ragazza non morisse. Ma le barricate non erano solo in piazza: lo spettacolo più bieco lo offrirono ancora una volta il Parlamento e i politici, tra risse in Aula, urla, accuse di omicidio e dichiarazioni incommentabili: «Le reazioni scomposte che arrivavano dalle Aule, i decreti del Governo, gli insulti, più erano sguaiati e più esprimevano il senso di debolezza e impotenza del potere – commenta Cappato – Da ciò capimmo che la nostra lotta sarebbe potuta essere vinta».

In quei giorni isterici e convulsi, tra i più drammatici degli ultimi vent’anni nella storia del nostro Paese, fu chiaro quanto la violenza dello scontro avesse spaccato l’Italia. Da una parte chi si univa alla lotta di Beppino Englaro, dall’altra chi, tra bottigliette d’acqua e preghiere, sperava che la ragazza non morisse. Ma le barricate non erano solo in piazza: lo spettacolo più bieco lo offrirono ancora una volta il Parlamento e i politici, tra risse in Aula, urla, accuse di omicidio

Un clima surreale, bene descritto nel film del 2012 La bella addormentata di Marco Bellocchio, e una tragedia privata violata che obbligò tutti – cattolici, laici, atei – a porsi gli stessi interrogativi: a chi appartiene la vita, dove finisce e come, se si possa smettere di definirla tale e quando. Il tema universale della vita e della morte fa paura a tutti e le rivoluzioni culturali necessitano dei propri tempi. Se forse dieci fa l’Italia non ne era preparata e pronta, oggi, grazie anche ai casi come quello di Eluana, Piergiorgio Welby e il più recente Dj Fabo, potrebbe esserlo.

Dopo l’approvazione della legge sulle Dat (Disposizioni anticipate di trattamento) nel 2017, infatti, il 30 gennaio ha preso il via alla Camera dei Deputati la discussione sulla proposta di legge di iniziativa popolare in tema di rifiuto dei trattamenti sanitari ed eutanasia, dopo più di cinque anni dal giorno in cui fu depositata e a solo otto mesi dalla scadenza fissata dalla Corte costituzionale per l’approvazione di una legge che regolamenti il “vuoto di tutele” Costituzionale sulla questione, emerso nel processo a Marco Cappato per aver accompagnato Dj Fabo a morire in Svizzera.

Due sono gli scenari possibili, come prevede lo stesso Cappato: «Se il Parlamento rimarrà ostaggio delle logiche di partito, di schieramento, di fazioni di governo e opposizione e se il dibattito sarà solo interno al palazzo, allora non riusciranno in otto mesi a dar luce a una legge. Se al contrario, invece, avranno l’umiltà di guardare fuori, di impostare il dibattito come libero, tra singoli parlamentari che affrontano il tema e non come donne e uomini di partito che obbediscono alle direttive, e se il dibattito sarò libero, davanti a un’opinione pubblica informata e dando la possibilita dei cittadini di sapere di cosa si sta discutendo in Parlamento, allora c’è la possibilìta di avere una buona legge, che tenga in considerazione non solo chi è attaccato a una macchina, ma anche la malattia terminale e la sofferenza insopportabile».

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