Nel novembre del 2017, dalle colonne del NYT, il celebre opinionista Thomas L. Friedman scriveva: “Non avrei mai pensato di vivere così a lungo da scrivere questa frase: il più significativo processo di riforme in corso nel Medio Oriente oggi sta avvenendo in Arabia Saudita. Sì, avete capito bene. Anche se sono arrivato qui a inizio inverno, ho trovato un Paese che sta attraversando la sua primavera araba”.
Anche Friedman era rimasto vittima dell’innamoramento generale verso Mohammed bin Salman, così come gran parte della stampa internazionale che nel giugno dell’anno successivo celebrò le prime patenti consegnate alle donne che potevano finalmente guidare l’automobile. Poi arrivarono, solo per citare gli eventi più emblematici, l’embargo al Qatar, gli arresti di massa per corruzione di ricchi cittadini sauditi detenuti nell’hotel Ritz-Carlton, il sequestro del Primo ministro libanese e l’omicidio Kashoggi; e anche gli analisti più ottimisti o miopi dovettero fare i conti con la realtà. Mbs è alla guida di un regime autoritario e spregiudicato, basato sull’accentramento del potere e sull’eliminazione degli avversari e dei critici.
Proprio in questi giorni, comunque, i riflettori sull’Arabia Saudita si sono riaccesi: l’occasione è la nomina della prima ambasciatrice donna nella storia del Paese. Si tratta di Rima bint Bandar al Saud, prossimo capo dell’ambasciata saudita a Washington, figlia di Bandar bin Sultan al Saud, che ricoprì la stessa carica della figlia tra il 1983 e il 2005. Un ulteriore tentativo di ripulire il volto del Paese: uno degli elementi più inquietanti e purtroppo poco dibatutti, infatti, è la condizione delle donne saudite, di cui si era tornati disordinatamente a parlare nella cronaca italiana in occasione della partita di Supercoppa a Gedda il 16 gennaio scorso.
Cosa nota sono le lunghe tuniche nere in cui le donne saudite sono costrette a nascondersi o l’impossibilità di queste ad avere una qualsivoglia indipendenza senza l’assenso del “guardiano” che può essere il padre, il fratello o il marito delle sfortunate. Ma c’è ben di più. Esiste infatti un’app (disponibile su Google e sull’App Store di Apple) che permette ai sauditi di controllare le donne quando viaggiano e impedire fughe indesiderate.
Un gruppo di membri democratici del Congresso degli Stati Uniti ha scritto al Ceo di Apple Tim Cook a a quello di Google, Sundar Pichai, accusandoli di complicità nell’oppressione delle donne saudite. Tuttavia Apple e Google non hanno ancora rimosso l’app: i due colossi della Silicon Valley infatti sono in buonissimi rapporti con Ryad e con Mbs, che l’aprile scorso ha visitato entrambe le sedi e incontrato Cook e Pichai
L’app, chiamata Absher (il “predicatore” in arabo) altro non è che un comune portale dove è possibile, per esempio, pagare le multe e rinnovare la patente di guida, ma al suo interno è presente anche un dettagliato registro delle donne saudite, alle quali è corrisposto un numero di quattro cifre. Inoltre, tra una scocciatura burocratica e l’altra, gli uomini sauditi possono utilizzare questo portale per specificare quando e dove le donne di loro proprietà possono volare fuori dal Paese e concedere o revocare il permesso di viaggio con pochi clic, rendendo specifici aeroporti o destinazioni off-limits.
Inoltre possono anche abilitare una funzione di Sms automatica, che li avverte quando una donna usa il passaporto al valico di frontiera o al check-in in aeroporto. Il sistema di allerta è il motivo principale del fallimento di molte delle tentate fughe, (circa un migliaio all’anno).
L’uso dell’app è stato denunciato da alcune saudite che sono riuscite a fuggire all’estero dopo aver rubato il telefono al proprio guardiano mentre dormiva e riuscendo così a raggirare il sistema.
Human Rights Watch e Amnesty International parlano di almeno un milione di telefoni in cui l’app è stata scaricata. Le ong hanno fatto pressione sui grandi produttori di software, come Apple e Android, e anche sui social media, a partire da Google, da dove viene scaricata l’applicazione, ed è nato l’hashtag #DropTheAPP su Twitter, creato dalla parlamentare di New York Carolyn Maloney.
Un gruppo di membri democratici del Congresso degli Stati Uniti ha scritto al Ceo di Apple Tim Cook a a quello di Google, Sundar Pichai, accusandoli di complicità nell’oppressione delle donne saudite.
Tuttavia Apple e Google non hanno ancora rimosso l’app: i due colossi della Silicon Valley infatti sono in buonissimi rapporti con Ryad e con Mbs, che l’aprile scorso ha visitato entrambe le sedi e incontrato Cook e Pichai.
Nonostante l’imbarazzo sia sicuramente grande, nel Golfo come in California pecunia non olet. Due settimane fa, dai microfoni della National Public Radio, il Ceo di Apple aveva dichiarato di non essere a conoscenza dell’app e ha promesso che avrebbe preso in considerazione il caso.
Su richiesta del Congresso, Apple e Google dovrebbero fornire una risposta entro il 28 febbraio.