La protestaI pastori sardi si mettano il cuore in pace: la politica non risolverà mai i loro problemi

Continuano le proteste degli allevatori in Sardegna per il crollo del prezzo del latte. Salvini parla di prezzi minimi stabiliti dallo Stato e di sovvenzioni, ma serve una ristrutturazione dell'intero sistema di produzione e trasformazione. Tutto il resto è campagna elettorale

Li abbiamo visti tutti, in centinaia, versare le brocche stracolme di latte. In mezzo alle strade, dai ponti, dentro i caseifici. E perché? È crollato, ancora una volta, il prezzo del latte. Sono gli allevatori sardi, che da una settimana ormai protestano dal nord al sud della Sardegna, intenzionati a bloccare persino i seggi elettorali, se non si troverà un accordo entro la data fissata per eleggere il nuovo presidente della Regione, il 24 febbraio.

Una protesta più che legittima, se si pensa che il prezzo del latte è scivolato da una media di 79 centesimi/litro (Iva inclusa) del luglio 2018 a una media di 63 centesimo/litro (Iva inclusa) a gennaio 2019. Una cifra che va al di sotto dei costi di produzione – 70 centesimi/litro (Iva esclusa) -, segnando un margine negativo per le aziende produttrici di 14 centesimi/litro. Ma se alle manifestazioni di rabbia e sconforto si vuol trovare una via d’uscita, a poco serviranno le passerelle dei politici di turno in vista di un tavolo di risoluzione del problema. Perché, molto semplicemente, il problema non è politico, ma di mercato.

Se si sfoglia l’ultimo rapporto Istat “Qualivita”, subito salta all’occhio la perdita di 100 milioni di euro della “pecora nera” tra i primi 15 prodotti di origine in Italia: il Pecorino Romano. È l’unico nella lista, infatti, ad aver subito una perdita del 38%, passando da 251 milioni del 2016 ai 155 milioni del 2017. Questo ha comportato un inevitabile abbassamento dei prezzi, per cui se a gennaio 2018 si poteva acquistare un chilo di prodotto a 7,50 euro, a dicembre dello stesso anno il prezzo scendeva a 5,40 euro al chilo. Da qui l’effetto domino devastante sul prezzo del latte ovino sardo, che viene trasformato per il 60% in Pecorino Romano. E proprio per questo motivo la maggior parte delle aziende sarde che se ne occupano (12 mila in totale) sono strettamente dipendenti di un’unica produzione. Finché il prezzo del Pecorino Romano sale, va tutto bene. Se scende, crolla tutto.

Non è una novità che negli ultimi quindici anni il prezzo sia oscillato tra i 70 e gli 80 centesimi/litro. Ciò che è mancato – e continua a mancare – è la ristrutturazione dell’intero sistema di produzione e trasformazione

È innegabile che cifre del genere siano un danno, oltre che per le famiglie degli allevatori coinvolte, anche per l’intera industria lattiero-casearia italiana, dato che in Sardegna si produce il 67% del latte ovino destinato alla trasformazione in Italia (15% in Toscana, 6% in Sicilia, 5% nel Lazio). In più il Pecorino Romano DOP rappresenta l’81,54% dei formaggi di pecora DOP in Italia e il 52% in Ue, prima del francese Roquefort (28%) e lo spagnolo Queso Manchego (20%). E a dispetto di quel che si è letto in questi giorni, non è vero che il mercato dei formaggi è in crisi. Tutt’altro: nel 2016 il consumo pro capite di formaggi in Europa è arrivato al +1,97% (+7% dal 2012 al 2016), e negli Usa ha raggiunto il +1,55% (+11% dal 2012 al 2016) (Clal.it).

Come si è arrivati allora a questo punto di non ritorno? Semplicemente, per reiterazione. Le proteste dell’ultima settimana non sono altro che lo sfogo di un settore che affronta ciclicamente lo stesso problema: l’aumento e poi il forte calo del prezzo del latte. Non è una novità, infatti, che negli ultimi quindici anni il prezzo sia oscillato tra i 70 e gli 80 centesimi/litro, poco più o poco meno. Ciò che è mancato – e continua a mancare – è la ristrutturazione dell’intero sistema di produzione e trasformazione. Per quanto riguarda il Pecorino Romano, la produzione (al 95% in Sardegna) è affidata a 16 aziende private – di cui 13 soci del Consorzio di tutela – e 12 cooperative di allevatori socie del Consorzio. Se il 61% della produzione del prodotto è affidata alle cooperative e il 39% agli industriali, è evidente che la responsabilità dell’andamento dell’industria di riferimento siano condivise tra gli allevatori e le aziende.

Da una parte c’è un continuo sforamento delle “quote latte”, stabilite per ciascun caseificio dal Consorzio per la Tutela del Formaggio Pecorino Romano. Ciò significa che quando il prezzo del formaggio scende per via della sovrapproduzione, c’è la corsa delle stesse cooperative di allevatori che fanno a gara a chi “svende” prima il latte alle aziende di trasformazione. Questo genera un sistema vizioso, per cui le industrie, che conoscono benissimo questo meccanismo, si aspettano puntualmente un prezzo a ribasso. Nel 2018 è successo esattamente questo: la produzione di pecorini è stata di 550 quintali, 60 mila in più rispetto a quelli richiesti dal mercato (rapporto Oilos).

Oggi si pensa che la soluzione immediata sia dare altri sussidi ai produttori per tamponare la crisi. Si parla di un “fondo latte ovino da 25 milioni”. Ma non funzionerà.

Come se ne esce? Intanto, come suggerito da un’analisi sui costi di produzione e trasformazione del latte ovino in Sardegna condotta dal professor Antonello Cannas (Dipartimento di Agraria, Università di Sassari), che si occupato a lungo su questi temi, servirebbe una maggiore coesione delle cooperative, che al contrario si fanno la guerra tra loro. Manca del tutto personale direttivo, tecnico, finanziario e commerciale adeguato: molti presidenti e consiglieri, ad esempio, fanno i direttori e i commerciali. Le reti di vendita sono inesistenti, si aspetta che i clienti bussino alla porta, mentre si continua a dipendere da pochi grossisti. E finché non saranno i produttori ad avere potere contrattuale, il prezzo da fare sul mercato continuerà ad essere deciso dai soliti noti sulla pelle degli allevatori. Si fanno i formaggi “per abitudine”, non c’è alcuna ricerca di mercato, innovazione e promozione dei prodotti. È un caso la Cooperativa 3A di Arborea, che oggi vanta 226 aziende agricole dislocate in tutta la Sardegna ed è il principale polo produttivo lattiero-vaccino nell’isola con circa il 90% del latte di vacca prodotto nell’isola.

A ciò si aggiunge l’inefficienza del sistema di trasformazione, per cui sarebbe opportuno chiudere un po’ di caseifici: sono troppi, molti sono sovradimensionati e hanno costi fissi troppo alti, una miriade di formaggi con marchi e nomi diversi. Razionalizzare i sistemi di raccolta del latte; pagare il latte a qualità per fare formaggi migliori; produrre in estate – si pensi al premio in Toscana al +0,1 euro/litro. Fare formaggi richiesti dai consumatori. E non da ultimo, migliorare l’immagine dei formaggi ovini seguendo una buona strategia di marketing. Si potrebbe guardare, ad esempio, al “modello Emilia Romagna”, dove esistono aziende forti che si confrontano con cooperative di allevatori altrettanto forti, dando vita a un sistema d’equilibrio tra i due attori principali della filiera.

Oggi si pensa – e ovviamente il primo a ribadirlo a gran voce è Matteo Salvini – che la soluzione immediata sia dare altri sussidi ai produttori per tamponare la crisi e fissare prezzi minimi arbitrariamente stabiliti dallo “Stato che torna a fare lo Stato”. A lui si aggiunge il segretario Pd Maurizio Martina, già ministro delle politiche agricole, che parla già di un fondo per il settore del latte ovino da 25 milioni. Ma non funzionerà. Sarebbe un aiuto nel brevissimo termine, sì, ma che non risolverebbe il problema di fondo. Se c’è una cosa che avrebbe potuto – e dovuto – fare la Regione Sardegna, nel corso degli ultimi trent’anni, è forzare le cooperative ad aggregarsi e sviluppare la loro capacità di vendita autonoma. Solo in questo modo sarebbe possibile far rialzare la testa ai produttori locali per metter su un sistema realmente competitivo. Nel frattempo, però, si aspetta un altro tavolo politico in vista delle prossime elezioni. E si continua a strumentalizzare una protesta per qualche voto in più.

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