Il bastone. Dovrebbero allegare delle mollette. Per tenere le palpebre in resta, intendo. Il libro di Kim Rossi Stuart è, molto semplicemente, di una noia bovina. Leggendolo, ti cala la palpebra. Con tanto di schianto a impaurire le tegole del tetto. Perché mai un attore d’inevitabile talento sia passato dal leggendario Amleto per la regia di Antonio Calenda, era il 1998, ai muggiti letterari di oggi – reminiscenza shakespeariana: “come se dopo una vita vissuta ‘fuori registro’, il tempo, parafrasando Amleto, fosse finalmente rientrato nei suoi cardini” – è un mistero. Anzi, è la sola ragione – antropologica, ad auscultare un’anima in disastro estetico, più che narrativa – per cui si legge il libro. Sono partito dall’ultimo dei cinque racconti, Alla fine del Male (l’ultimo diavolo). Titolo orrendo – a differenza del titolo complessivo della raccolta, Le guarigioni, riuscito – ma trama, sulla carta, intrigante. Il mondo è afflitto da un’epidemia di buonismo, chiamata END (“Estatismo Neuro Disfunzionale”), che determina una “specie di demenza gioiosa e altruista”, e un tizio, il narratore, cerca, tramite reiterate violenze, di riportare alcuni uomini alla normalità, cioè alla loro natura appassionata, virile, malvagia. Tema interessante, svolgimento claustrofobico e infantile. Scrittura incerta, tremendamente rétro fin dalla prima pagina (“Ricordo una pellicola in particolare, nella quale i protagonisti trafficavano in una compiaciuta amarezza, trastullandosi tra chiacchiere…”); decorso narrativo di diabolica pedanteria; incapacità di esaltare le poche parti potenti (i cadaveri dei bambini offerti in pasto a belve e rapaci, perché le creature abbiano un pasto soddisfacente); gorghi retorici imbarazzanti (“Devo assomigliare all’icona della morte che ho visto una volta nel film di un regista di nome Bergman”). Soprattutto, il bel Kim è letterariamente disintegrato dalle sue ‘fonti’ a contrario: Io sono leggenda (al posto dei vampiri, il racconto è abitato da frotte di ebeti, ma l’esperienza dell’assolata solitudine vorrebbe essere la stessa) e Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij (dove il protagonista è responsabile della caduta nel peccato, nel male, di una civiltà felice). Il tema morale, in effetti (“perché Dio ha fatto sì che io e solo io potessi testimoniare che sta all’Uomo la decisione di costruire il Bene o il Male…”), non è nelle corde di Kim, filosofo da parco giochi, educanda piamente nichilista, meglio continuare a farsi impiccare dagli aforismi granitici di Dostoevskij (“noi possiamo amare veramente soltanto con sofferenza e attraverso la sofferenza, non siamo capaci di amare in altro modo, io voglio la sofferenza per amare”). Di melma e melassa sono intrisi, piuttosto, gli altri racconti, ideati intorno a vite provinciali, minuscole, muscolarmente inutili, dettate in scrittura kitsch («gli occhi neri e allungati di Anna, la sua bocca morbida e calda, il corpo tornito, candido e profumato»: se il ciclo di racconti improvvisati fosse stato letto dal più improvvido degli editor sarebbero saltati all’aria aggettivi come “neri e allungati”, “morbida e calda”, “tornito, candido e profumato”, troppo abusati e cretini per essere autentici). Del rapporto tra padre e figlio ne La lotta, della nevrosi del Maniaco inesistente, della sessomania beota (“in una notte lei mi trasformò da amante discontinuo ed egocentrico qual ero, in una specie di macchina da sesso”: e qui scatta l’apocrifa pernacchia) narrata in L’altra metà, della pacchiana crisi mistica dettagliata con barbara acribia ne Il chiodo («Decido di togliermi lo sfizio di analizzare il chiodo, così mi munisco delle pinzette da sopracciglia e come una novella Semola alle prese con la spada nella roccia, provo a estrarlo»: e qui scatta la pernacchia bis) c’importa nulla, restiamo piantati lì, all’incrocio tra sbadiglio e regno di Morfeo. Quasi tutti i racconti sono narrati in prima persona, la via più facile, mancano di uno straccio di strategia letteraria – l’arte del dialogo e dell’elusione, la necessità di variare, di accendere il racconto per infiammare il lettore – e forse di letture appropriate. Per carità, Kim non è il solo. In questo e altri mondi – penso ai casi recenti: Sean Penn e Tom Hanks, autori di catodici fiaschi letterari – gli uomini di spettacolo pensano di giustificare la didascalia “artista” con cui sono cinti scrivendo un libro. La Nave di Teseo, in particolare, ci sta marciando, ha stampato i libri di Laura Morante e di Claudio Baglioni, di Silvio Muccini e di Elio, per dire, convinti, forse, che si vendano da soli facendo qualche comparsata in tivù. Il libro ha ancora questo potere, è come un Rolex. Ma la letteratura non è uno show, non è fare cinema.
Kim Rossi Stuart, Le guarigioni, La Nave di Teseo 2019, pp.206, euro 16,00
La carota. La fine dice tutto dell’artista, elogio dello spreco, provvidenziale indagine negli aculei della dissipazione. Uno che volta il deretano alle presentazioni, al mercimonio pubblico, alle recensioni sui giornali. Si è dimenticato le poesie, ecco tutto. Preso dalla vita, dalla frenesia del vivere, va a Marsiglia, s’imbarca come mozzo per Israele. E dimentica il malloppo di versi a Parigi, dove s’era bevuto le notti a suon di sesso e scrittura, specie di Dioniso con l’assenzio nelle vene. Klaus Kinski. L’attore funambolico e folle, il viso più violento e candido della storia del cinema, l’uomo che è stato Aguirre e Fitzcarraldo, Nosferatu e Woyzeck, che “ormai isolato e inviso a produttori e registi, si ritirò in completa solitudine in una casa tra i boschi di Lagunitis (San Francisco), dove morì nel 1991”. Rocambolesco è stato il ritrovamento di queste poesie, in una casa d’aste a Monaco, poi pubblicate in Germania nel 2001, poi presentate su Poesia, la rivista di Nicola Crocetti, nel 2012, ora in volume, come Febbre. Diario di un lebbroso, in clandestinità, fuori dalle maglie avare e asettiche del mercato editoriale, per la cura di Antonio Curcetti, che in una intervista pubblicata altrove mi ha detto, «posso dire d’essere contento d’aver dato voce a poesie che fanno a meno d’ogni idea consolatoria di perennità dell’arte, che inseguono il sensibile ma non la metafisica; sono soprattutto contento d’aver messo in fuga quasi tutti, la grande editoria spaventata dall’orco e quella cosiddetta alternativa, invecchiata e senza più il coraggio della pura perdita». Non esistono cineasti con il genio della scrittura – i romanzi di Elia Kazan sono dei mattoni, per dire – né attori che si siano dati alla poesia – semmai accade il contrario – e di Pasolini ce n’è stato soltanto uno, lui. Tuttavia, Kinski credeva nelle sue poesie – nel 1955, in una intervista, dichiarò di aver scritto versi “senza eguali nel suo tempo” – aveva fede nell’arte attoriale come gesto lirico, è stato in fondo il Rimbaud della grande cinematografia, dedito a uccidere se stesso. «Supponiamo che questo poeta ebbro di definitivo/infinito sia un giorno morto per risorgere beffardamente come spettro, uno spettro che si sia servito del cinema per interpretare sempre uno stesso ruolo, un ruolo ‘definitivo’ per quanto replicabile all’infinito», scrive, in una galvanizzata postfazione Paolo Spaziani, dandosi ragione del perché l’attore abbia ucciso e cannibalizzato il poeta. Eccessiva quanto vi pare, votata all’oralità, nata tra le macerie liriche di Antonin Artaud e le mascelle poetiche di Georg Trakl (“Tenuti su dalla cartapesta/ dorata i fiori senza petali,/ le moltitudini di Cristo/ minacciose come lillipuziani/ che sotto i deboli raggi del sole/ si sfaldano nel fetore dello iodio”), questa poesia grave di bestemmie e di implacabile narcisismo (“Io cerco me stesso – e quando mi riconosco sono il mio peggior nemico”) non si legge, col senno di poi, come testimonianza delirante di un grande attore. Al contrario, è la vita cinematografica di Kinski a essere l’appendice e il commento alla sua poesia. A volte è una variante vertiginosa, sovente non si dimostra all’altezza del verbo.
Klaus Kinski, Febbre. Diario di un lebbroso, Nessuno Editore, a cura di Antonio Curcetti, pp.164, s.i.p.